In seguito al fallimento dell’operazione Eagle Claw nell’aprile 1980 e dopo la tragica conclusione della crisi degli ostaggi in Iran, innescata dall’assalto all’ambasciata americana a Teheran nel 1979 e risolta solo grazie alla mediazione del governo algerino il 20 gennaio del 1981, gli Stati Uniti avevano dovuto assistere a una poderosa diffusione di americanofobia e testimoniare, impotenti, all’invasione dell’armata sovietica in Afghanistan.
Non ufficiale ma noto, il supporto di Washington alla guerriglia dei mujahidin contro l’esercito sovietico – lì per puntellare il governo, ormai fantoccio, della Repubblica Democratica dell’Afghanistan – si sarebbe prolungato per anni, rivelando una crepa profonda nella leadership americana.
Con una campagna presidenziale innervata da un deciso anticomunismo e cristallizzata nello slogan «Make America Great Again» – non a caso riesumato nel 2016 da Donald Trump –, Reagan fu eletto perché promise di restaurare la perduta gloria nazionale e di restituire agli Stati Uniti la guida del mondo. Inevitabile che, per dominare il pianeta, occorresse controllarne anche l’extra‑atmosfera.
È significativo che il 4 luglio del 1982, nella direttiva National Space Policy, «un quadro politico praticabile per un programma spaziale aggressivo e lungimirante», siano indicati come obiettivi fondamentali il mantenimento della «leadership spaziale degli Stati Uniti» e la volontà di cooperare con altre nazioni garantendo libertà di manovra «per attività che migliorino la sicurezza e il benessere dell’umanità».
Di fatto, sebbene la stampa sovietica non esitasse a paragonarlo a Adolf Hitler e Reagan avvicinasse Andropov all’oscuro villain di Star Wars, anche l’annuncio di uno scudo spaziale che avrebbe intercettato i missili sovietici, prima che raggiungessero il territorio americano, andrebbe valutato nell’ottica di un presidio spaziale capace di garantire la sicurezza e, insieme, la convivenza pacifica.
Ancora una volta sarebbe stata questa dualità a dare esiti imprevedibili, portando alla costruzione del primo avamposto orbitale internazionale. Nel maggio del 1981, durante un’importante conferenza del kgb, Leonid Brežnev, già visibilmente malato, denunciò la politica di Reagan come una seria minaccia alla pace globale. Fra lo stupore generale, Andropov, che diciotto mesi dopo avrebbe lasciato il comando del kgb per ereditare la guida del Partito comunista da Brežnev, annunciò che per la prima volta il kgb e il gru, altrettanto temuto servizio di intelligence militare, avrebbero lavorato insieme nell’operazione ryan, acronimo di Raketno‑Yadernoye Napadenie, cioè «Attacco Missilistico Nucleare». L’operazione avrebbe dovuto raccogliere informazioni sul presunto piano di Reagan di sferrare un attacco atomico contro l’Unione Sovietica.
«La situazione internazionale non è tanto esplosiva dalla Seconda guerra mondiale» chiosò Andropov. Poco contò che a distanza di un anno, quando Andropov divenne il Segretario del Partito, ryan non avesse trovato prova alcuna dei presunti piani di attacco statunitensi, perché quando il 23 marzo del 1983, durante una cena alla Casa Bianca, Reagan parlò per la prima volta della Strategic Defense Initiative, i sovietici la percepirono come «parte della preparazione psicologica dei cittadini americani a un attacco nucleare». Detto altrimenti, la conferma del loro incubo peggiore.
Frutto, in realtà a lungo coltivato, dell’establishment politico e militare americano, la Strategic Defense Initiative avrebbe dovuto impiegare una rete sia terrestre che satellitare per rilevare i missili balistici intercontinentali lanciati da Mosca, così da intercettarli e distruggerli prima di ogni possibile danno. Il sistema, presto soprannominato Star Wars, in una sola mossa
avrebbe reso obsolete le armi nucleari e inutile la corsa di quanti intendevano accumularne. Un obiettivo, il disarmo, che Martin Anderson, fra i consiglieri più fidati di Reagan, avrebbe garantito essere il supremo desiderio del Presidente. Approvata dal Congresso nel 1985, quando furono chiare a tutti la lunga gestazione del progetto e il supporto del Pentagono, la Strategic Defense Initiative venne inizialmente finanziata con ventisei miliardi di dollari, raggiungendo, in nove anni, un budget complessivo di duecentocinquantatre miliardi.
Le guerre stellari, però, non arrivarono da sole. Per evitare che le proprie attività spaziali venissero percepite solo come declinazione della strategia militare, e in coerenza con quanto espresso dalla National Space Policy, il 25 gennaio 1984, nel suo annuale discorso sullo stato dell’Unione, Reagan annunciò di avere accolto una proposta della nasa: costruire con i paesi alleati una stazione orbitante che celebrasse la fratellanza fra i popoli e della cui attività beneficiasse l’umanità intera – o, almeno, quella considerata amica degli Stati Uniti. Due scopi ben rappresentati dal nome scelto per l’avamposto: Freedom. Rimane celebre la fotografia dell’incontro di ratifica dell’accordo alla Casa Bianca, con il presidente americano, Margaret Thatcher e il primo ministro giapponese, Yasuhiro Nakasone, in posa attorno al modello della futura stazione. In breve tempo il Regno Unito avrebbe fatto da traino alla partecipazione dell’esa, proprio mentre il Cremlino, nel 1985, avrebbe registrato l’ingresso di Michail Gorbačëv, successore di Andropov e chiamato a fronteggiare sfide capaci di sgambettare l’Unione Sovietica.
E non senza un ruolo, nel causare la caduta definitiva dell’Urss, da parte dello Spazio, o meglio, della Strategic Defense Initiative. La realizzazione dello scudo spaziale di Reagan, infatti, prometteva sviluppi in ambito aerospaziale, elettronico e informatico in grado di spingere gli Stati Uniti a un livello tecnologico senza pari. Con una politica economica che la Storia avrebbe ricordato come Reaganomics, il presidente americano ridusse le tasse, aumentò il deficit pubblico, deregolamentò il mercato e finanziò più intensamente che mai le industrie più innovative e impegnate nella ricerca. Attività di cui lo scudo spaziale rappresentava la convergenza perfetta.
Non è un caso, in quegli anni, iniziassero a prosperare startup tecnologiche in grado di costruire le basi dei futuri colossi globali dell’informatica e dell’elettronica. Internet stessa, come tante altre tecnologie spaziali entrate nell’uso comune, non fu che un’evoluzione della pionieristica arpanet, che per connettere i nodi dello scudo spaziale fu implementata con i protocolli tcp/ip e quindi portò al National Science Foundation Network (o nsfnet), genitore diretto della rete informatica che avrebbe sconvolto il mondo.