In giapponese, «sayonara» significa addio: si può usare dopo un divorzio, ma non per dirsi ciao, arrivederci. Per gli attivisti alla Cop29 di Baku è la parola giusta: «Sayonara fossil fuels, sayonara fossil fuels, sayonara fossil fuels». Le centonovantotto Parti del negoziato Onu sul clima devono decidere di abbandonare per sempre le fonti energetiche fossili. In pochi, però, credono ancora che le Cop, così come si svolgono ora, possano raggiungere un qualsiasi tipo di risultato con la velocità che richiederebbe la crisi climatica.
A non crederci più sono anche alcune delle persone che hanno contribuito a queste conferenze, alla scienza sul clima e alle politiche di contrasto al riscaldamento globale. Alcuni nomi: Ban-Ki Moon, ex segretario generale dell’Onu; Christiana Figueres, ex segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle Nazioni unite sul cambiamento climatico (Unfccc); Mary Robinson, ex presidente dell’Irlanda; Johan Rockström, direttore del Potsdam Institute for Climate Action Research.
Venerdì 15 novembre, loro e altre diciotto persone hanno inviato una lettera al Palazzo di vetro: «È necessaria una riforma del processo Cop», si legge. «Dopo ventotto negoziati sul clima, il quadro politico è scientificamente rigoroso, ma non è sufficiente per risolvere i problemi».
I firmatari non si limitano alla critica, fanno delle proposte. Le prossime Cop dovrebbero escludere dal processo di selezione del Paese ospitante quelli che non sostengono l’eliminazione dei combustibili fossili. Snellire i tempi e la scala delle conferenze. Istituire meccanismi per costringere gli Stati a rispettare gli impegni presi. Definire criteri chiari su cosa costituisca un finanziamento climatico per evitare di considerare quelli che aggravano il debito delle nazioni vulnerabili. Istituire un organo scientifico permanente che partecipi alle Cop. Evitare che alle Cop ci siano i lobbisti dell’industria fossile.
Alla conferenza di Baku, le persone accreditate con le aziende dell’oil and gas sono 1773. Sono più dei membri delle delegazioni dei dieci Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico messi insieme. I numeri sono pubblicati in un report del collettivo “Kick big polluters out”, e – in proporzione rispetto al totale dei partecipanti – sono simili a quelli del precedente negoziato.
L’interesse delle compagnie fossili per le conferenze sul clima non riguarda evidentemente la transizione energetica. I petrolieri non stanno facendo abbastanza per ridurre le emissioni di carbonio. Un’analisi pubblicata il 14 novembre dal centro studi Carbon Tracker ha rivelato, infatti, che nessuna delle trenta più grandi aziende fossili ha adottato una strategia di decarbonizzazione e riduzione delle perdite di metano, gas con un impatto climalterante ottantacinque volte quello della CO2 su un arco di vent’anni.
Se le soluzioni non arrivano dal settore energetico, potrebbero arrivare dai governi. Durante la quarta giornata di Cop29, la Commissione europea e la Beyond Oil and Gas Alliance – un’alleanza di Paesi che collaborano per facilitare l’eliminazione della produzione di petrolio e gas – hanno annunciato una collaborazione per accelerare l’uscita dai combustibili fossili in Europa e nel mondo.
Il negoziato vero e proprio, però, è un altro e sta procedendo a rilento. Il mandato principale di Cop29 è un accordo sulla finanza climatica: un’intesa sulle risorse economiche da mobilitare per la transizione ecologica, l’adattamento al cambiamento climatico e il risarcimento di danni e perdite causati dagli eventi meteorologici estremi. Il gruppo formato dalla Cina e dai Paesi del G77 chiede un fondo da milletrecento miliardi di dollari l’anno da mobilitare entro il 2035. A metà del negoziato, il testo da presentare ai ministri delle Finanze e dell’Ambiente è ancora troppo lungo e con troppe questioni lasciate irrisolte.