Mentre scorrono incessanti e drammatiche le immagini di Valencia sommersa dal fango, è necessario sforzarsi di raccontare e capire come sia andata la sedicesima conferenza Onu sulla biodiversità, la Cop16. Crisi climatica e crisi ambientale (perdita di specie e habitat) sono equazioni di uno stesso sistema. Risolvere entrambe significa proteggere innanzitutto noi stessi: le nostre città, la nostra salute, la nostra meraviglia.
Il sedicesimo negoziato tra i centonovantasei Paesi firmatari della Convenzione delle Nazioni unite sulla diversità biologica (non ratificata dagli Stati Uniti) non è stato facile: undici giorni di discussioni, migliaia di tazze di caffè, rigorosamente colombiano. A ospitare il vertice Onu, dal 21 ottobre al 2 novembre, è stata la città di Cali in Colombia.
Dopo una plenaria andata avanti tutta la notte tra l’1 e il 2 novembre, la presidente della Cop, Susana Muhamad, ministra dell’Ambiente colombiana, ha deciso di sospendere i negoziati. Troppi nodi ancora da sciogliere, troppe questioni lasciate irrisolte. A pesare di più sulla valutazione – fallimentare – della Cop16 c’è il mancato raggiungimento della somma messa sul piatto dall’Onu all’inizio del vertice: duecento miliardi di dollari all’anno, da stanziare nel fondo per la biodiversità, il Global biodiversity framework fund, istituto alla Cop15 di Montréal.
A Cali, invece, è stata trovata l’intesa su un altro strumento finanziario per la tutela degli ecosistemi: il Fondo Cali che avrà come risorse una parte dei ricavi ottenuti dallo sfruttamento commerciale della natura. I finanziamenti saranno messi a disposizione soprattutto di progetti di conservazione delle specie portati avanti dalle comunità indigene. Popolazioni riconosciute custodi dell’ambiente e che per questo – come stabilito a Cali – alle prossime conferenze Onu sulla biodiversità faranno parte di un organo permanente e avranno quindi un ruolo decisionale.
Per capire il fallimento di Cop16 è necessario conoscere l’accordo firmato alla precedente Cop: il protocollo Kunming-Montréal è stato definito, per la sua importanza, «l’accordo di Parigi per la natura». Gli obiettivi fissati: rendere aree protette il trenta per cento della superficie del pianeta, oceani compresi, entro il 2030; ripristinare il trenta per cento degli ecosistemi danneggiati e finanziare queste azioni con le risorse – settecento miliardi di dollari all’anno, quelle stimate – del Global biodiversity framework fund.
A Cali, le aspettative erano alte. In agenda alla Cop16 c’erano: la verifica dei progressi per il raggiungimento dei target dell’accordo Kunming-Montréal e il versamento dei soldi – duecento miliardi quelli stabiliti a Montréal – i restanti cinquecento si dovrebbero recuperare dirottando i sussidi alle attività agricole, tra le principali cause della perdita di biodiversità.
Il fondo però ha ricevuto risorse pari a quattrocento milioni di dollari da dodici Paesi donatori: Austria, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Norvegia, Regno Unito, Spagna, e il governo regionale del Québec (dove si trova Montréal). Non c’è l’Italia: il governo Meloni non sembra intenzionato a investire nella tutela della biodiversità e per mesi a livello europeo ha fatto opposizione alla direttiva Ue sul ripristino degli ecosistemi (Nature restoration law).
Anche i progressi verso l’obiettivo noto come 30×30 (mettere sotto protezione il trenta per cento del pianeta entro il 2030) sono stati limitati. Attualmente, il sedici per cento della superficie terrestre e l’otto per cento degli oceani è sottoposto a qualche forma di tutela. Tuttavia, secondo un’analisi del Natural history museum, quasi un quarto delle terre più ricche di biodiversità a livello mondiale si trova all’interno di aree protette, ma la qualità di queste aree sta peggiorando più velocemente rispetto a quanto succede nelle zone non protette. In altre parole, «mettere sotto protezione più aree – avvertono gli scienziati – non porterà automaticamente a risultati migliori per la biodiversità».
A spiegare la questione delle aree protette a livello italiano sono Simonetta Fraschetti e Maria Chiara Pastore, coordinatrici di due dei gruppi di ricerca (rispettivamente spoke1 e spoke5) del centro italiano di biodiversità, National biodiversity future center (Nbfc), inviate a Cali per seguire i negoziati. «In Italia ci sono ottocentosettantuno aree protette e i numeri non sarebbero così negativi se non fosse che spesso la qualità della protezione è bassa. Le aree protette sono importanti, ma per essere efficaci devono essere progettate e gestite correttamente».
Pianificazione, dunque. Lo sanno anche i Paesi firmatari dell’accordo di Kunming-Montréal che a Cop15 hanno concordato di presentare le strategie nazionali per la tutela delle specie e degli ecosistemi, i Nbsap, sigla di National biodiversity strategies and action plans. Piani simili a quelli per il clima, gli Ndc (Nationally determined contributions). Documenti che gli Stati devono presentare per indicare le azioni con cui si impegnano a raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Differenza fondamentale tra i due piani: i Paesi sono obbligati per legge a presentare gli Ndc sul clima, ma non gli Nbsap sulla biodiversità. Ad oggi solo quarantaquattro Stati hanno pubblicato le loro strategie per la tutela delle specie.
Al netto della differenza del vincolo di presentazione dei piani, è auspicabile mettere a sistema le strategie. A una settimana dall’inizio di un’altra Cop – la Cop29 sul clima di Baku – è importante sottolineare che una politica per azzerare le emissioni che non preveda la tutela degli ecosistemi è destinata a fallire, come confermato da un recente studio pubblicato su Nature che ha rivelato che la perdita di biodiversità riduce lo stoccaggio del carbonio.