Scusali, LositoL’insalvabilità di “Disclaimer”, e le due regole dello spettatore contemporaneo

Dopo aver visto la miniserie di Alfonso Cuarón ho una certezza incrollabile: lo sceneggiato italiano kitsch non può essere grave quanto il trash in purezza di questa inenarrabile porcheria con un cast di prestigiosi premiati. Una telenovela messicana, ma con pretese

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«Non sapevo niente di questo sceneggiato di Cuarón, e ora lo bramo». L’ho scritto il 4 ottobre alla mia amica V., gliel’ho scritto dopo che mi era passato davanti il “prossimamente” (o come dite voi analfabeti con smanie cosmopolite: il trailer) su Apple+, e mi era passato davanti perché ero sintonizzata su Apple+, e lo ero per la ragione per cui tutte le persone sensate pagano ogni tanto Apple+: per vedere “Slow Horses”. Questo ci porterebbe alla seconda regola dello spettatore contemporaneo, ma ci arriviamo dopo.

V. mi ha risposto che la figlia ne aveva viste un paio di puntate a Venezia, e non le erano parse un granché, e io lì mi sono scordata della prima regola, regola che mi divenne chiara a venticinque anni, guardando “Aprile” di Nanni Moretti. Guardando Nanni Moretti che sbeffeggiava “Strange Days”, che nella Venezia di quand’avevo ventidue anni m’era parso un capolavoro.

La Venezia di quand’avevo ventidue anni non era neppure particolarmente pallosa: voglio dire, c’era Chabrol, c’era Scola, c’era Spike Lee, c’era “La dea dell’amore”, dal quale potrei citarvi il coro greco ma ve lo cito in un articolo su due e se non lo sapete ormai a memoria non c’è speranza.

Tuttavia, era la Venezia alla quale mi venne per la prima volta il sospetto che gli adulti non fossero poi così svegli. Fu quando, uscendo da un film su un tizio che raccoglieva peli di figa, film che finiva con la macchina da presa abbandonata davanti a un muro, muro sul quale per dieci minuti (percepite: dieci ore) cagavano piccioni, tutti i critici che veneravo si profusero in «Capolavoro, genio», mentre io pensavo che nessuno mi avrebbe restituito quelle ore (e non avevo ancora visto Antonioni e Wenders, un altro sfracellamento di coglioni che se non ti passava la cinefilia lì non ti passava più).

Chiaro che, in quel contesto, quando arrivava “Strange days” ti pareva la ricreazione: i morti di Kathryn Bigelow erano più vivi dei vivi di Antonioni. Passai i successivi due anni e mezzo ad ascoltare il cd in cui Juliette Lewis cantava PJ Harvey, poi Nanni Moretti disse che era «una cazzata memorabile», si contrì per aver portato la moglie incinta al cinema, si preoccupò che il film influenzasse il figlio, e io capii che avevamo ragione tutti e due: magari era una cazzata (non l’ho mai più visto), ma dopo dieci minuti di piccioni che cagano sul muro non poteva che sembrarmi un capolavoro.

La prima regola, dunque, è che i giudizi che i critici esprimono durante il festival del cinema di Venezia non hanno alcun valore. E il primo comma di questa regola è: ma se persino la figlia poco più che ventenne, e in piena nebbia da festival del cinema, se persino la figlia della tua amica ha capito che era una stronzata, tu perché ti sei approprinquata a “Disclaimer” con tante speranze? (È qui, quando divago per cinquanta righe prima di dire per la prima volta il titolo della serie che è tema dell’articolo, che il seo infila spilloni in una bambolina che ha il mio aspetto).

«È che non ho la pazienza di vedere “Inganno”, sennò è come se già lo vedessi il pezzo da scrivere, intitolato “Vi accanite sulla pagliuzza di Inganno e non vedete la trave di Disclaimer”». L’ho scritto a R. il 23 ottobre, il mese in cui era di moda dire quant’era brutto uno sceneggiato italiano di Netflix che io figuriamoci se guardavo, ma avevo visto quattro puntate di “Disclaimer” e mi era tutto chiarissimo: lo sceneggiato italiano kitsch non poteva essere grave quanto il trash in purezza di questa inenarrabile porcheria con un cast di prestigiosi premiati, porcheria che provava a fare cento cose e le faceva tutte malissimo, e le faceva pure dandosi un tono.

Man mano che le persone normali (cioè: quelle non chiuse nelle stanze imbottite d’un festival di cinema) vedevano “Disclaimer”, tutti convenivamo della sua insalvabilità, ed è stato allora che ho assistito a uno dei meccanismi psicologici più divertenti che esistano: il critico veneziano che difende la propria posizione. Uno ha scritto che non ci piaceva perché eravamo sessuofobi, che è un’accusa esilarante considerato che, in quasi sette ore (percepite: quasi settecento), “Disclaimer” ha tre misere scene di sesso.

Una delle quali è la prima, una scopata in una cuccetta di treno. “Rivals”, che nessuno ha capolavorato perché la coincidenza tra l’insieme dei critici culturali e quello del ceto medio complessato è quasi perfetta, comincia con una scena di sesso nel cesso d’un aereo. Solo che “Rivals” (è su Disney) è tratto da uno dei capolavori di Jilly Cooper, e ha una delle cose che mancano a “Disclaimer”: la tendenza a non tromboneggiare. Poiché aveva ragione Jep Gambardella, e in questo paese ti prendono sul serio solo se ti prendi sul serio, “Rivals” che andrebbe preso sul serissimo non viene considerato dai semicolti impegnati a strizzarsi le mutande perché mioddio la Blanchett, mioddio Cuarón.

Lo so: non ho ancora detto niente di “Disclaimer”. È forse perché ho scelto di venire incontro al pubblico disagiato cui è caro il concetto di “spoiler”? Figuriamoci. Segue quindi subito breve elenco di cose che potete trovare in “Disclaimer”, che torna utile se proprio avete perso una scommessa e per pagarla dovete vederlo. Prontuario di dettagli che potete riferire fingendo di averlo visto.

Partiamo dalla fine, quando dopo sei ore in cui tutto è stato narrato come fosse cronaca, si scopre che macché: era una versione dei fatti. Quella falsa, giacché nella settimana puntata si scopre che la seduttrice trentenne era in realtà stata stuprata dal morto: la vittima che tutti piangono era carnefice (poi ci torniamo). Pensavi di vedere “Basic Instinct”, stavi vedendo “Rashomon”.

Dunque niente era come sembrava, e questo fa optare i più buoni per un’interpretazione caritatevole delle pecionate presenti nella prima puntata. Quello che poi morirà e la sua fidanzata arrivano in una Venezia in cui i tabelloni dei treni sono quelli degli anni Settanta, le cuffiette del walkman che ha lui sono quelle degli anni Ottanta, le cabine telefoniche sono quelle degli anni Novanta, e il gondoliere fa il prezzo della corsa in euro. Quest’ultimo dovrebbe essere l’unico dato di realtà, considerato che il bambino che lì aveva quattro anni al presente ne ha venticinque.

La fidanzata riparte perché muore sua zia, per non so quante puntate. Poi si scopre che no, la fidanzata se n’era andata forse perché lui l’aveva stuprata, forse perché boh. Fatto sta che lui va a Forte dei marmi, dove da ogni altoparlante esce “Ti amo” di Umberto Tozzi, che è del 1977 ma non sarò certo io a obiettare ai classici della musica leggera. A Forte dei marmi c’è la giovane Cate Blanchett, che non è Cate Blanchett, è la figlia di Greta Scacchi, ed ex moglie di Sean Penn (si chiama Leila George). Sempre alla voce “grande accuratezza dello scenografo”, Sacha Baron Cohen, marito di Cate Blanchett al presente, ha come salvaschermo una foto della moglie col figlio neonato. La moglie è Cate Blanchett. Quindi quattro anni prima aveva la faccia di Cate Blanchett, quattro anni dopo quella di Leila George, ventun anni dopo di nuovo quella di Cate Blanchett. Ma non vorremo mica cavillare, di fronte al capolavoro.

La nostra femme fatale, in questa prima versione, si scoperebbe il giovanotto, poi la mattina dopo lui le direbbe che vuole che lasci il marito, lei (sana di mente) direbbe «maddeché» e, quando poco dopo lui affogherà per salvare il figlio coglione di lei, che è andato al largo non sapendo nuotare, lo guarderà morire senza dispiacersi particolarmente: un problema di meno. Quello è l’unico momento, in sette ore, in cui sembra che “Disclaimer” stia per fare qualcosa d’interessante: raccontarci il tormento di una che ha lasciato morire un tizio cui la sera prima aveva insegnato a leccarle la figa solo perché il tizio stava diventando un problema.

(Cito di nuovo R., che poi si è messa a vedere “Disclaimer” e ha rivalutato “Inganno”: «Com’è possibile che questo sei scene prima scopasse come un riccio in treno e sei scene dopo sembri Verdone da giovane che non ha mai visto un pelo di fica?» – R. è romana, lo dice con la “c”. In effetti quell’incongruenza avrebbe dovuto insospettirci: diamine, siamo dunque di fronte a un narratore inaffidabile? Li avevo pure studiati, allo stesso liceo frequentato dai critici veneziani).

Insomma, sono passati ventun anni, la madre del morto è morta, dopo aver scritto un libro in cui ricostruiva come romanzo la storia del figlio e della femme fatale, nel frattempo divenuta documentarista di gran successo. La ricostruzione si basa sullo sviluppo del rullino rimasto nella macchina fotografica del morto, in cui la femme fatale posa ammiccante in biancheria rossa. Il vedovo fa stampare il romanzo e decide di dedicare la sua vecchiaia a dare il tormento alla donna che si è scopata suo figlio. E qui inizia un delirio che io spero che Cuarón vada in pellegrinaggio sulla tomba di Teodosio Losito a chiedergli scusa.

Il marito – un Sacha Baron Cohen di rara canitudine, in preda al complesso del comico che a una certa età ritiene disdicevole continuare a fare il buffone e smania per dimostrare d’avere il registro drammatico – dà di matto, alla notizia che, ohibò, sua moglie ventun anni prima si è scopata ben due volte un tizio. Tizio oltretutto morto. La caccia di casa, le mette contro il figlio, diventa migliore amico del padre del morto. Del quale pare non sospettare affatto la psicopatologia, nonostante costui non faccia granché per dissimularla e vada in giro con un cardigan rosa, tutto tarlato, preso tra le cose della defunta moglie. (Unica scheggia di verosimiglianza: Cohen è figlio di famiglia ricca, e sappiamo che i figli dei ricchi son quasi sempre stolidi. E, come dice B., anche lei obbligata alla visione dalla mia ossessione per questa inarrivabile schifezza, se la Blanchett non fosse di classe di nascita inferiore, lui non oserebbe mai cacciarla di casa).

Psycho in golfino rosa (Kevin Kline, forse unico che si salva nel canile generale, anche perché unico con un ruolo delirante nei tratti psicologici ma non nella scrittura) a un certo punto va in ufficio dalla Blanchett e circuisce la sua assistente, lasciandole molte copie del romanzetto. Per inciso, architettura dell’ufficio stupenda, così come quella di casa Blanchett/Cohen: tutta l’abilità che lo scenografo non ha messo nella ricostruzione d’epoca, l’ha messa nel design di interni londinese.

A quel punto c’è forse la scena più ubriaca dell’intera produzione, una roba che Garko e la Arcuri si sarebbero rifiutati di recitare. Quando Blanchett torna in ufficio, tutti i redattori stanno leggendo il romanzo (i trentenni di questo secolo notoriamente lettori forti), e tutti sono indignati con lei (sono indignati perché vent’anni prima s’è scopata uno al mare e poi quello è morto e lei non faceva il bagnino) e non vogliono più lavorarci.

La affrontano a brutto muso, perché è proprio quello l’atteggiamento che verosimilmente si ha verso la star del posto (la serie è iniziata con Christiane Amanpour che consegnava un premio a Blanchett: è incontrovertibilmente il nome di punta di quel posto). A quel punto lei isterica fugge, per sbaglio dà anche una sberla a uno, tutti la filmano coi telefoni acciocché poi ci possa essere l’immancabile linciaggio on line che tanto fa sentire moderna una produzione televisiva di questi anni: una scena che sembra la riedizione brutta della scena «Shame!» del “Trono di spade”. (Se esiste una definizione di “trash” più precisa di «provare a rifare il “Trono di spade” e coprirsi di ridicolo», a me ancora non è venuta in mente).

Ed è in quel momento, più ancora che nella distanza tra grande scopatore e giovane Verdone, che avrei dovuto capire il problema di “Disclaimer”. “Disclaimer”, come tutti i prodotti davvero brutti, ha un messaggio. E il messaggio – mi dispiace citare sempre “The West Wing”, ma non è mica colpa mia se contiene tutto – è quel sospiro del presidente Bartlet: the things we do to women.

“Disclaimer” vuole dirci che le donne sono sempre vittime, che alle donne nessuno crede mai, che una donna assertiva viene presa per prepotente, una donna di successo non vediamo l’ora che inciampi, una donna sotto pressione viene liquidata come isterica.

E quindi alla settima puntata Cate Blanchett svela a Kevin Kline com’è andata davvero. Sì, certo, la mattina dopo il figlio di Kline è morto tentando di salvare dall’affogamento il figlio di lei, perché era un criminale buono. Ma la sera prima si è presentato in camera sua con un coltello, l’ha violentata, l’ha costretta a posare per quelle foto, lei era terrorizzata perché il quattrenne dormiva di là, la mattina dopo era indecisa se denunciarlo o no ma poi quello è morto e quindi lei non ha detto niente. Ah, è pure rimasta incinta, perché dev’essere martire fino in fondo, e ha abortito.

Dettaglio coincidente tra la versione dei fatti delle prime sei puntate e quella della settima: il bambino aveva rischiato l’affogamento perché Cate Blanchett dormiva in spiaggia. Perché, quando ti trovi su una spiaggia su cui c’è anche uno che la sera prima t’ha stuprata, vuoi non fare un pisolino?

Kevin Kline, che da anni cova rancore e da mesi pianifica vendetta, ci mette una mezz’oretta a crederle. Sacha Baron Cohen, che l’ha cacciata di casa per delle corna di venti e fischia anni prima, si precipita a chiederle perdono dopo che uno psicopatico in golfino rosa gli ha sintetizzato la versione con stupro in quindici secondi in piedi in mezzo a un corridoio d’ospedale.

È a quel punto che viene il sospetto che Alfonso Cuarón volesse fare otto puntate ma Apple+ gliene abbia pagate solo sette. Quando, in una scena che evoca il vanziniano «Lo dìmo, non lo fàmo» citato in “Boris”, su due seggiole dell’ospedale tutti i dubbi del pubblico vengono chiariti in qualche decina di secondi. La moglie dice al marito che non gli ha detto dello stupro perché visto che quello era morto pensava di poter cancellare il ricordo e tenerlo fuori dalle loro vite, e poi che ora però lo lascia perché lui le pare sollevato dal fatto che lei non sia stata fedifraga ma stuprata e questo è inaccettabile.

Non ricordo – abbiate pazienza, non ho la tenacia di rivedere l’ultima puntata – se sia prima o dopo che c’è il dettaglio più incredibile. Kevin Kline torna a casa e, nel barbecue, brucia le foto scattate dal figlio a quella che in una notte è passata da tentatrice a stuprata. Foto che ha visto lui, che ha visto sua moglie, che lui ha fatto duplicare per recapitarle a casa Blanchett/Cohen, che ha persino mandato su Instagram al figlio della Blanchett (le trame riguardanti il quale vi ho risparmiato perché vi proteggo da certi imbarazzi). Quelle foto le abbiamo viste tutti, noi a casa e il marito che si credeva cornuto sullo schermo, centinaia di volte. E solo mettendole nel barbecue Kline s’avvede del dettaglio che, ohibò, ci era fin lì sfuggito: nello specchio d’un armadio dietro alla ragazza discinta, si vede il riflesso del bambino che s’era svegliato ed era andato di là a osservare lo stupro della madre. Scusali, Teodosio.

La seconda regola di visione che conoscono gli spettatori avvertiti è: gli sceneggiati inglesi sono ormai migliori di quelli americani. Qui l’ambientazione è londinese come lo è Sacha Baron Cohen, Blanchett è australiana, Cuarón è messicano. Kline è americano, ma come detto è anche l’unica cosa buona. Mi resta quindi il dubbio che, oltre agli altri danni, “Disclaimer” ci abbia rovinato la regola. D’altra parte l’ultima stagione di “Slow horses” era peggiore delle precedenti: è finito dunque anche l’impero televisivo britannico? Non ci voglio credere. Voglio archiviare questo Losito minore come ciò che è: una telenovela messicana, ma con pretese.

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