Donna, vita, libertàLa resistenza al regime iraniano e l’attivismo culturale come forma di emancipazione

Nella terza giornata de Linkiesta Festival Rayhane Tabrizi ha raccontato la situazione delle donne sotto la dittatura di Teheran, e del coraggio di attiviste e dissidenti che lottano per i loro diritti

Due anni e due mesi fa circa Masha Amini è stata uccisa, dopo essere stata arrestata a Teheran dalla polizia religiosa per aver indossato l’hijab in modo scorretto. Il carattere di un Paese si misura anche dal peso con cui viene giudicato un “errore”: sbagliare in Occidente è diverso da sbagliare in un Paese antidemocratico, come succede nella Repubblica Islamica dell’Iran. La resistenza al regime in quei territori parte dai dissidenti del regime e dalla società civile, come fa il movimento “Donna, vita, libertà”. «In Iran c’è tantissima movimentazione, nonostante sia un percorso di alti e bassi – ha raccontato Rayhane Tabrizi, attivista dissidente iraniana in Italia –. In questo momento ci sono quarantadue persone a rischio impiccagione, e nelle carceri ci sono anche donne attiviste».

Nonostante le repressioni da parte del regime le proteste non si sono mai interrotte: Tabrizi racconta dello sciopero della fame che si tiene ogni martedì, e che è nato dalla sezione femminile del carcere di Evin; un gesto inizialmente nato per protestare contro la condanna a morte emessa per la sindacalista Sharifeh Mohammadi, e che oggi continua per protestare contro le esecuzioni, sotto forma di disobbedienza civile. Il pilastro che la Repubblica Islamica vuole mantenere per sopravvivere, però, sono le donne. «Sembra banale che una donna venga uccisa solo per una ciocca di capelli, ma questo è il simbolo della mancanza di libertà – afferma Tabrizi –. Le donne sono simbolo della lotta in Iran perché insieme a loro ci sono molti uomini. Lo slogan di “Donna, vita, libertà” è profondo, e non è uno slogan femminista: abbiamo cercato di far capire che con sé porta messaggi profondi e può essere usato per tutto il mondo».

Da parte del mondo occidentale, però, il sostegno al movimento non è stato compatto. «Io penso che siamo stati molto presi in giro dai governi, dall’Europa e dagli Stati Uniti – commenta con schiettezza l’attivista –. All’inizio tutti sembravano esprimere solidarietà, ma spesso hanno fatto tutto il contrario. Tante giornaliste si sono presentate con il velo davanti alla Repubblica Islamica, e per quanto riguarda la politica non abbiamo ricevuto supporto. Abbiamo fatto solo una semplice richiesta: limitare il potere del regime, diminuendo i rapporti con lui, e sostenere chi scappa dall’Iran».

A queste richieste, però, non sempre è stato dato ascolto, sfociando anche in situazioni problematiche. Come è stato per esempio il caso di Maysoon Majdi, ragazza curda arrestata in Calabria con l’accusa di essere stata una scafista dello sbarco del 31 dicembre nel porto cittadino. «Il minimo che i Paesi possono fare è accogliere le persone che sono fortunate e che riescono ad arrivare in Europa per costruirsi nuova vita – afferma l’attivista –. Per quanto riguarda la comunità all’inizio siamo stati accolti dai gruppi femministi, ma poi quando abbiamo raccontato il movimento si sono allontanati. Dopo il 7 ottobre la maggior parte degli iraniani si sono allontanati: vediamo strade piene di gente che manifesta per il popolo di Gaza, ma noi non abbiamo mai avuto numeri di persone così grandi a supportare il popolo iraniano. È doloroso che esista questa discriminazione».

Senza più alcuna legittimità da parte della società civile, il regime degli ayatollah per mantenersi sta cercando alleati, e lo fa soprattutto rivolgendosi alle altre autocrazie. «L’Iran è molto forte in Medio Oriente, la Repubblica Islamica vuole padronarlo – commenta Tabrizi –. Loro non vogliono che esista Israele, e grazie ad Hamas e Hezbollah mantengono una tensione elevatissima in quella zona. Il regime ha perso credibilità agli occhi del popolo. Loro collaborano con altri stati dittatoriali, tra cui la Russia, la Cina, il Venezuela, la Corea del Nord, e questo dice tanto».

L’aiuto fornito dagli altri Stati, però, non è sempre diretto, e le risorse che vengono fornite riescono a interferire anche nei Paesi democratici. «Attraverso la Russia e la Cina hanno interferito in Europa, per esempio nella guerra in Ucraina. Indirettamente, quindi, il regime sta anche attaccando l’Europa, ma nessuno capisce questo nesso sottile – dice l’attivista –. Ci sono tantissimi iraniani con doppia cittadinanza che sono stati rapiti e portati in Iran. Per ora quattro di loro sono stati impiccati, e altri sono accusati di essere spie. Un regime che fuori dal continente può rapirti e riportarti nel Paese dimostra un difetto di sicurezza, che esiste anche in Europa».

Il rapporto tra Iran e Occidente si è anche palesato con le recenti elezioni americane, che hanno visto una comunità iraniana votare per i Repubblicani. «Trump è stata la persona che ha messo più sanzioni, che ha preso posizione contro il regime – commenta Tabrizi –. Questo ha messo in difficoltà gli iraniani che non fanno parte del regime. Trump non è una persona affidabile, e sono curiosa di vedere quali saranno le conseguenze della sua elezione».

In chiusura, Tabrizi ha parlato dell’attivismo e delle iniziative promosse dalla comunità iraniana in Italia, che tra eventi e spettacoli da una parte si impegna a protestare contro il regime, dall’altra a far conoscere la cultura iraniana, cercando di decostruire gli stereotipi presenti nel dibattito pubblico, che solo alimentati dalla propaganda del regime. «Il nostro messaggio più forte è che noi usiamo la lotta disarmata – commenta Tabrizi –. In Iran la gente usa il suo corpo e la sua vita come arma, noi vogliamo pacificamente fare la rivoluzione. La nostra è una cultura di pace, il nostro slogan lo dimostra. Abbiamo visto che il popolo italiano recepisce molto il linguaggio artistico, per cui noi lavoriamo molto su quello». Lo fanno per esempio attraverso lo spettacolo “Lui”, che racconta le sofferenze del popolo di Teheran schiacciato dal regime. «Chiedo di non cadere nella propaganda del regime, e i giornalisti in questo hanno una responsabilità grandissima – chiude Tabrizi –. Ci vuole solo una parola per essere ingannati».

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