Il centro per migranti nella località albanese di Gjadër è una via di mezzo tra un cantiere in costruzione e una struttura abbandonata. Nuovo e decadente allo stesso tempo. In accoppiata con quella di Shengjin, una città sulla costa adriatica dove è stato realizzato un hotspot per lo sbarco e l’identificazione dei migranti, la struttura di Gjadër, venti chilometri nell’entroterra, è stata pensata per ospitare un centro di prima accoglienza per chi fa richiesta d’asilo, con ottocentottanta posti, e un centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) da centoquarantaquattro posti. Tutte e tre al momento contano zero inquilini. L’11 ottobre il governo italiano aveva annunciato l’apertura dei centri e la loro operatività. Eppure oggi a Gjadër c’è ancora molto da fare. O forse, almeno per il momento, non c’è quasi nulla da fare.
Venerdì 22 novembre Francesca Romana D’Antuono, co-presidente di Volt Europa, e altri quattro deputati del gruppo paneuropeo sono stati in visita al centro per migranti di Gjadër. In un’intervista per Linkiesta, Romana D’Antuono racconta che i lavori nell’impianto non sono affatto finiti: il centro di prima accoglienza presenta al momento solo trecentocinquanta posti disponibili, e il Cpr ventiquattro, e in alcune zone sono ancora presenti macchine da lavoro. «Ma quando noi eravamo lì erano spente e nessuno le stava usando», spiega la co-presidente di Volt Europa. «Non saprei dire se i lavori fossero interrotti o meno, tuttavia c’è un forte senso di abbandono in tutta la struttura».
Nel corso della scorsa settimana gli operatori sociali di Medihospes, la cooperativa a cui sono stati dati in gestione i centri, hanno fatto le valigie per tornare in Italia. La decisione dell’11 novembre del Tribunale di Roma di non convalidare il trattenimento nel centro di sette migranti ha reso inutile la loro presenza al di là dell’Adriatico. Oltre che non redditizia, visto che gli operatori di Medihospes vengono pagati in base al numero di persone che arrivano nella struttura. A “presidiare” i settantasette chilometri quadrati del centro sono così rimasti una manciata di albanesi incaricati del servizio sanitario e delle pulizie, dodici agenti italiani (a regime nei tre centri dovrebbero essercene duecentonovantacinque) e sette funzionari con ruolo amministrativo. Tra questi, dunque, nessuno che si occupa di migranti. Che, in queste settimane, da Gjadër sono passati in diciotto in tutto, e solo per qualche ora prima di essere portati in Italia.
La struttura che dovrebbe ospitare i migranti è stata realizzata su un’ex base dell’Aeronautica militare albanese abbandonata da parecchi anni. Al suo interno: il centro per l’accoglienza dei richiedenti asilo, il Cpr, una piccola prigione, il centro medico dove è ancora in costruzione una sala operatoria, il centro di analisi e le camere con quattro letti per stanza. È enorme e isolata da tutto. Per arrivarci dal paesino più vicino la strada è impervia. Una cattedrale nel deserto. «Non vi annoiate qua?», aveva chiesto Romana D’Antuono ad alcuni agenti incaricati di sorvegliare le celle vuote. Come risposta aveva ricevuto una scrollata di spalle e qualche vaga battuta del tipo «sì non c’è niente da fare, però dobbiamo stare qua perché ci è stato chiesto».
Più ottimista, almeno all’apparenza, il capo della logistica del centro: se le procedure si attivassero i rimpatri funzionerebbero e anche rapidamente, aveva detto, sostenendo poi che nel centro si potrebbero processare fino a tremila richieste d’asilo al mese. Tremila al mese. Una stima decisamente generosa, considerando che in Italia tremila richieste vengono processate più o meno in un anno.
Buoni propositi a parte, il centro per migranti ideato dal governo italiano è costato alle casse dello Stato sessanta milioni di euro per la costruzione (a cui si aggiungono i trecentomila euro al giorno per l’esercizio della nave incaricata di trasportare i migranti soccorsi in acque internazionali fino al porto di Shengjin). E la spesa per il prossimo quinquennio è stimata attorno al miliardo di euro. «Questo centro è il prodotto di un modello disumano e sperperone della destra al governo», ci dice Romana D’Antuono. «Noi di Volt siamo contro il paradigma securitario portato avanti in Italia e proponiamo un modello di integrazione basato sulla solidarietà tra i paesi europei. Un modello che permetta un’accoglienza dignitosa per chi arriva nei nostri territori e da cui la nostra economia e la nostra società possano trarre beneficio». E poi aggiunge: «I soldi pubblici investiti in questa struttura potevano essere stanziati per altri progetti più utili, come la costruzione di case popolari, la manutenzione di strade o il miglioramento di strutture di assistenza nel nostro Paese».
Al di là della questione dei costi, finora l’iniziativa dell’esecutivo è stato un buco nell’acqua anche dal punto di vista dei risultati ottenuti. In meno di due mesi, infatti, nei centri albanesi sono state portate solo diciotto persone, che sono poi state riportate in Italia poco tempo dopo. Come previsto dal protocollo, i migranti sbarcati in Albania erano tutti maschi maggiorenni provenienti da paesi considerati “sicuri”, vale a dire paesi in cui – secondo il governo italiano – sono rispettati i diritti della popolazione e l’ordinamento democratico. Il loro trattenimento nei centri per migranti albanesi è stato però ostacolato dai giudici del Tribunale di Roma, che in entrambe le occasioni si sono rifatti a una sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di immigrazioni.
Al centro del braccio di ferro tra esecutivo e giudiziario, in particolare, c’è il concetto di sicurezza di un paese. Una direttiva del 2013 della Corte di Giustizia dell’Unione europea stabilisce che un paese può essere ritenuto “sicuro” se è tale in ogni zona del suo territorio e per tutte le persone che ci abitano. Stando a questa interpretazione, Egitto e Bangladesh, paesi di provenienza dei migranti destinati dal governo italiano all’Albania, non potevano essere considerati “sicuri” e quindi dovevano essere riportati in Italia. La preminenza del diritto dell’Unione Europea su quello nazionale, inoltre, ha di fatto inibito il decreto-legge emanato dal governo in risposta alla sentenza del Tribunale di Roma.
Negli ultimi giorni, il governo italiano ha preso altre contromisure. Innanzitutto, ha fatto ricorso di fronte alla Corte di Cassazione, che il 4 dicembre dovrà esprimersi contro le non convalide dei trattenimenti in Albania e del Tribunale di Roma rispetto ai poteri della magistratura in merito ai paesi considerati “sicuri”. E poi con un emendamento al Decreto Flussi, il cosiddetto “emendamento Musk”, ha trasferito le competenze delle convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo dalle sezioni immigrazioni dei Tribunali alle Corti d’Appello, nella speranza che altre toghe si pronuncino in maniera contraria alla sentenza europea. Una doppia mossa che però, anche in questo caso, risulterà vana nel caso in cui i giudici delle due Corti dovessero ributtare la palla in Lussemburgo.