La cosa più importante successa ieri non è l’elezione del prossimo (o della prossima) presidente degli Stati Uniti. Sì, lo so che tutti i titoli di giornale sono sulle ennesime elezioni più importanti della storia del mondo, e so anche che i giornali da giorni pubblicano sondaggi spiegando come Oreste di Montecatini e Pina di Vipiteno voterebbero se fossero residenti in Pennsylvania e in Ohio. Lo so che vi siete convinti che vi riguardi.
La cosa che davvero vi riguarda, tra quelle successe ieri, è che è uscito in libreria “In frantumi”. È la storia scritta da Hanif Kureishi di quel che gli è accaduto quasi due anni fa a Roma: è caduto. No, non è una storia di sanpietrini. È caduto in casa, e si è rotto l’osso del collo. Si è risvegliato tetraplegico.
Non molto tempo dopo l’incidente, Kureishi ha iniziato a raccontare in una newsletter la sua vita di abbrutimento, piccole speranze, grandi incazzature, nuove abitudini, fatiche impreviste, abbandono di tutto ciò che davi per scontato, rieducazione motoria, estranei che ti mettono le mani addosso e forse dovranno mettertele addosso per tutta la vita, per tutta questa tua nuova vita.
Direte: ma non mi riguarda, ma non voglio sapere niente, pretendo di mantenere distanze apotropaiche, l’idea di svegliarmi paralizzato mi terrorizza e non voglio neanche pensare che potrebbe capitare a me. Ma non serve mica che ti capiti quello, perché ti riguardi. Basta che due infermiere non passino davanti a casa tua con tempismo cinematografico.
Era gennaio del 2023, e uno dei migliori scrittori che conosco mi disse: Kureishi è la cosa più potente da leggere in questi giorni, comico e straziante. Ventidue mesi dopo, non ha smesso di esserlo (mi dice chi l’ha visto che neanche ha mai smesso d’essere splendidamente arrogante, che è la miglior notizia dell’anno: fosse diventato mite, sarebbe bruttissimo segno).
E io non ho mai smesso di chiedermi come facesse. Non: come facesse a svegliarsi paralizzato e a sbattersi per venirne fuori invece di deprimersi e annichilirsi. Quella è un’incognita così enorme che non mi ci avventuro. M’interrogavo su una cosa apparentemente minuscola ma dirimente per chi di mestiere scrive.
Scrivere è un lavoro manuale. Quando si fanno sceneggiature in gruppo, il privilegiato è quello che sta al computer. Gli altri teoricamente dettano, dicono, scrivono tanto quanto il tizio che ha le mani sulla tastiera, ma tutti sanno che non è così: si pensa con le dita, quando si scrive. Il cervello è collegato alla tastiera. Kureishi ha scritto la newsletter e poi il libro (lo pubblica Bompiani) dettando ai figli o a Isabella, che non so come chiamare perché «compagna» mi fa schifo, per «fidanzata» siamo tutti troppo vecchi, e non credo siano sposati. (Secondo me, se hai lo spazzolino nello stesso bagno, «moglie» va bene comunque).
Incidentalmente, Isabella è la nipote di Suso Cecchi D’Amico, forse ne avete sentito parlare, una tizia che scrisse robetta come “Il gattopardo” e “I soliti ignoti”, “Senso” e “Parenti serpenti”. Diceva Suso, riferisce Hanif, che la commedia si scrive meglio in gruppo perché così verifichi subito se le battute fanno ridere – ma io non sono mica sicura. Se dovessi dettare, non so se avrei la forza di imparare un nuovo metodo. La forza o il talento.
Kureishi, invece, che già doveva reimparare a vivere senza braccia e senza gambe e senza privacy, ha dovuto anche imparare a scrivere senza che le idee gli venissero muovendo le dita. Foss’in lui, sarei ben più incazzato di quanto s’intravede lo sia lui. A Federica Manzon, che lo ha intervistato per La lettura, ha dato questa descrizione qui: «È come aver perso una parte della tua vita, ti guardi indietro e ti chiedi come faceva a significare così tanto per te. Sei un alieno atterrato sulla Terra che osserva la gente giocare a calcio e si chiede perché diavolo a questi piace così tanto».
Però non è di che grande scrittore sia Kureishi che voglio parlare, di quanto sia tenace il suo attaccamento alla vita, di quanto indomito sia il suo spirito d’osservazione (sempre alla Manzon, parlando di Roma e della mancanza di multiculturalismo italiana, dice: «Ho sempre avvertito una sorta di mancanza di energia, di decadenza, che personalmente mi affascina, è come essere negli anni Cinquanta: cammino per le strade, vedo un sacco di gente anziana che si somiglia, con le borse dello shopping, mi piace molto ma allo stesso tempo mi chiedo qual è il futuro di un Paese così, dove sta l’energia?»; in “In frantumi”, nota che l’Italia è una delle grandi civiltà gay d’Europa, «il Vaticano è gay, e così la moda. L’intera estetica del Rinascimento è basata sulla sessualità poliamorosa»).
Voglio parlare di una cosa che ha scritto a febbraio, e che mi ha messo addosso un’angoscia che è quella che hanno cercato invano di trasmettere durante la campagna elettorale americana. Alla fine ci dev’essere stato un cambio di strategia, perché le celebrità che facevano il loro discorsetto pro-Harris non parlavano più dell’aborto ma del resto: del tetto al prezzo dell’insulina, dell’assistenza per i poveri, di tutte le differenze che avrebbe fatto avere un governo vagamente di sinistra in un Paese privo di stato sociale.
Kureishi però è inglese. La prima parte della sua riabilitazione l’ha fatta a Roma, poi è tornato a Londra. La sua esperienza è quindi quella che ha un malato grave in due paesi che hanno la sanità pubblica, e guai diversi da quelli americani. Certo, da noi l’insulina è gratis (cioè: il diabetico l’ha già pagata con le tasse, lui e gli altri contribuenti), ma il problema della sanità pubblica è che poi i soldi finiscono. E non è che, quanto a guai e tagli, la sanità inglese sia messa assai meglio della nostra.
Quindi un mattino Hanif è lì che detta al figlio Carlo, e inizia ad avere degli spasmi alla vescica. Gli si è intasato il catetere. Non riescono a risolvere. Gli sale la pressione. Potrebbe venirgli un ictus. Ci vogliono pochi minuti, per cambiare il catetere, ma serve un infermiere che lo sappia fare, e la persona che è lì per badare a lui non è specializzata, può solo mandare il giovane Kureishi in farmacia a comprare un attrezzo con cui tentare un risciacquo del catetere. Ma in nessuna farmacia vicina si trova ciò che serve.
Le persone attorno a lui cercano di procurarsi aiuto, ma la sanità pubblica inglese non manda un’ambulanza perché, benvenuti nel secolo in cui siamo troppi e non ci sono abbastanza risorse, Kureishi non sta abbastanza male. Fosse almeno svenuto. Fosse più morto che vivo. Finché di ambulanze ne arrivano due, ma – ho già detto «benvenuti nel secolo in cui siamo troppi e non ci sono abbastanza risorse»? – nessuna con a bordo una persona qualificata a cambiare un catetere.
Vogliono portarlo al pronto soccorso, lo caricano in ambulanza e lui già si vede a morire in un corridoio in attesa, come si è visto chiunque sia stato in un pronto soccorso in anni recenti (sempre quelli di: troppa gente, non abbastanza risorse). Ma, un attimo prima di partire, come in un film scritto male, un portantino gli dice che è tutto risolto: ora se ne occupano queste due signore che passavano per strada giusto ora, sono due infermiere professionali. Che in un attimo gli cambiano il catetere, e tutto è bene quel che finisce disostruito.
Non accoglievo un lieto fine con tanto sollievo da quando avevo otto anni, ero seduta sul tappeto davanti a Rai 1, e Ashley Wilkes tornava dalla guerra di secessione. Era tutto raccontato con umorismo e nessun attaccamento alle tende, Hanif diceva pure al figlio che sarebbe stata una scocciatura morire oggi che aveva un appuntamento a pranzo, ma io mi angosciavo lo stesso.
Il catetere bloccato di Kureishi ha avuto su di me l’effetto che non è mai riuscita ad avere la campagna elettorale della gente famosa che in America invitava a votare Kamala Harris, e lo faceva parlando del diritto all’interruzione di gravidanza come se fossero stati gli anni Cinquanta e gli anticoncezionali non fossero mai stati inventati, e finendo per far pensare anche a me, la più assolutista delle proaborto, che insomma, anche meno melodramma.
Forse è che non vivo in un posto che non fa leggi perché conta sulle sentenze della Corte Suprema, o in un posto che ti abitua fin da piccola all’idea che essere curati o no sia questione di reddito. Forse è che so che la vita è sceneggiatrice, ma mica sempre di roba col lieto fine, e quindi da mesi mi chiedo: e se le infermiere non fossero passate di lì per caso?