Olivo Barbieri, nato il 4 febbraio 1954 a Carpi, è uno dei fotografi più ammirati in Italia: protagonista più volte della Biennale di Venezia negli anni Novanta, ha ottenuto anche importanti riconoscimenti e riscontri all’estero, tra cui il Premio Higashikawa nel 1992 in Giappone e la grande retrospettiva del 1996 al Museum Folkwang di Essen.
Barbieri si avvicina alla fotografia negli anni Settanta durante gli studi di pedagogia e Dams a Bologna. Da subito si interessa all’illuminazione artificiale urbana e partecipa a diversi progetti del Maestro Luigi Ghirri, a cui resta legato da sincera e lunga amicizia.
Nel corso della sua carriera ha vissuto l’evoluzione tecnologica della fotografia, utilizzando la tecnica quale strumento per rappresentare la realtà e sfidare la percezione. Il suo famoso “fuoco selettivo” è così considerato dall’artista quale dispositivo filosofico per reinterpretare la città contemporanea e la complessità della percezione, ossia per trovare una soluzione all’irricevibile domanda: è vero ciò che vedo?
Al grande pubblico è noto proprio per questa tecnica e per la caratteristica “miniaturizzazione del paesaggio” che ne consegue. Si tratta di un effetto distintivo, un marchio di fabbrica del prolifico Barbieri, ottenuto attraverso l’uso di riprese aeree con messa a fuoco selettiva (decentramento o tilt-shift) al fine di produrre offuscamenti analoghi a quelli presenti in una fotografia macro.
Dopo le interviste a fotografi internazionali, in bilico tra filosofia e fotografia, abbiamo parlato con Barbieri nell’ambito della nostra indagine sullo stato dell’immagine al giorno d’oggi. Le sue risposte, sfidanti e spesso enigmatiche, aprono scenari di riflessione, soprattutto riguardo al futuro della comunicazione e del suo rapporto con il cosiddetto “progresso”.
Come ha iniziato la sua carriera in un mondo della fotografia così diverso da quello odierno?
Sì, era molto diverso, anche se nella sostanza negli ultimi cinquant’anni poco è cambiato: è un mondo ancora prevalentemente amatoriale, ghettizzato e autoriferito; mancano ancora utili storie e della fotografia, che non siano soltanto un elenco di professionisti che hanno fatto la storia del costume. Ciò premesso, ho intuito molto presto che la fotografia a colori sarebbe stata la forma d’arte più importante del secolo scorso. Gli autori che più mi interessavano erano Man Ray e Andy Warhol, per la loro capacità di produrre immagini senza l’ausilio di abilità manuali.
Qual è il suo rapporto con il colore, dal momento che il bianco e nero non sembra attirarla troppo?
Mi piace il bianco e nero, ma è soltanto una tecnica antica di quando non si riusciva a controllare il colore. Il bianco e nero non esiste, per questo ci attrae tanto. Anche il colore non sappiamo cosa sia, erroneamente lo crediamo la normalità.
Secondo il suo ragionamento, non esistono e non sono “normali” né il colore né il bianco e nero. Perciò non ha risposto alla mia domanda.
Alla fine degli anni Settanta, a pranzo con alcuni artisti e curatori a Parma: un acerrimo sostenitore della superiorità della fotografia a colori sentenziò “Ugo Mulas sarà anche bravo, ma le verifiche poteva farle a colori”. Arturo Carlo Quintavalle tagliò corto dicendo: “Bianco e nero e colore sono due messe in codice del reale”.
Come è stata influenzata la sua ricerca artistica dal tumulto dell’innovazione tecnologica in ambito fotografico
Mi sono avvicinato alla fotografia perché era la tecnica più forbita per riprodurre l’immagine di ciò che crediamo sia la realtà. Negli anni ne ho seguito i cambiamenti tecnologici e me ne sono servito come tecnica più forbita per riprodurre l’immagine di ciò che crediamo sia la realtà.
Le sue opere spesso coinvolgono manipolazioni visive. Come decide quando e come applicare queste tecniche?
Quando sono al servizio della rappresentazione del soggetto. Ad esempio, in site specific_HOUSTON 12 ho stabilito un contatto tra il downtown della città texana e la Rothko Chapel.
La tecnica del “fuoco selettivo” l’ha resa celebre anche al grande pubblico: come ci è arrivato e come la inserisce all’interno della sua lunga ricerca artistica? Qual è dunque il filo conduttore tra questi lavori e i notturni di Viaggio in Italia e i Flippers?
Mi ero stancato di sentire ripetere con enfasi che la fotografia è il ritratto della realtà. Volevo trovare un modo per indicare all’interno dell’immagine dove fosse l’inizio di lettura, come in una pagina scritta. Il fuoco selettivo diventa un dispositivo filosofico per rileggere la forma della città contemporanea. Dai primi anni Ottanta studio l’illuminazione artificiale in occidente e in oriente. Le lunghissime esposizioni e le bruciature nelle luci alte per rendere leggibili le ombre sono un dispositivo per capire la forma della città contemporanea. I progetti site specific_ e Ersatz Lights sono due modalità complementari per rispondere alla stessa domanda: gli strumenti percettivi di cui disponiamo sono ancora adatti a decifrare la complessità dell’esistente?
A questo punto del suo percorso che risposta si è dato?
Il risultato è porsi questa domanda; cercare di scoprire altri strumenti non deve però essere un esercizio sterile.
In una società dell’immagine e dell’auto-rappresentazione, quale rapporto ha con la ritrattistica?
Mi interessa molto, anche se la vivo come un’intrusione fastidiosa. Preferisco ritrovare la traccia delle persone nel paesaggio e nell’architettura.
Per concludere, come vorrebbe che il pubblico interpretasse il suo lavoro?
Il pubblico, come la possibilità di leggere le immagini, è fluido e, in quanto tale, non ha punti fermi. Quello che capiamo di un’opera è determinato da quanto impareremo dalle opere successive. Caravaggio lo abbiamo pienamente compreso solo dopo l’invenzione del cinema. Le immagini sono la forma d’arte più importante di questo secolo.