«La cucina italiana è l’incontro tra tradizione e innovazione». Per quanto ancora le nostre orecchie dovranno sanguinare ascoltando l’accoppiamento di questi due termini? Nessuno si rende davvero conto che hanno lo stesso feeling di quelle vecchie coppie sposate che stanno insieme per noia senza avere il coraggio di lasciarsi? Proviamo a fare un mea culpa anche noi che abbiamo l’onere e l’onore di raccontarlo questo settore, ma siamo anche sinceri e schietti: da quanto stiamo cercando di cancellare questa dicotomia dal dizionario della lingua gastro – italiana? Da tanto, troppo tempo ormai. Eppure qualcosa dovremmo aver pur sbagliato se fuori, quando si racconta la nostra cultura enogastronomica, si continua a utilizzare questo linguaggio, se queste due parole proseguono nel loro viaggio in bocca di chi, questa nostra cultura enogastronomica, dovrebbe promuoverla.
Questo è stato infatti l’incipit che abbiamo ascoltato durante l’apertura lavori in una delle sedi europee, dove in questi giorni si sta celebrando la Settimana della cucina italiana nel mondo. Un linguaggio trito e ritrito che non rende merito al gran lavoro di cuochi, imprenditori, vignaioli, produttori e maître. Che non riesce a dare il giusto peso a un settore spesso in crisi, ma in costante rivoluzione culturale. E qui, da quelle due semplici parole, parte una riflessione: su quello che può voler dire questo evento e questa settimana dedicata, su come potrebbe e dovrebbe essere diversa e su come, fatta in questo modo, perda di identità e significato. Se si vuole promuovere la cultura e portare l’enogastromia italiana in un dialogo nuovo al di fuori dei confini nazionali, in modo diverso e più produttivo, forse bisognerebbe farlo fuori dai palazzi del potere, in quelle ambientazioni fatte di chiacchiere, dove manager e dirigenti si confrontano in un dialogo tra pari, egoriferito, privo di essenza e fatto solo per ascoltare voci che poi non hanno un riscontro pratico e realista.
Quello che abbiamo percepito è un’atmosfera apatica e stantia, in cui risalta anche la dicotomia tra mondo privato e istituzionale. Oggi lo scenario è abbastanza chiaro. Da una parte i soggetti privati (guide, gruppi editoriali e soggetti vari) vanno avanti in un racconto che segue in qualche modo lo sviluppo stesso del settore agroalimentare e che cerca di superare la distanza tra realtà e passato ideologico. Dall’altra ci sono le istituzioni, il mondo pubblico, che si mantiene ancorato a ciò che è stato, come se in qualche modo la certezza di quella tradizione potesse mettere tutti al riparo da un futuro incerto. E allora è un pullulare di associazioni di categoria, tutte diverse tra loro e pure identiche nel perpetuare azioni e comportamenti, che spesso lasciano fuori il nuovo e, soprattutto, la parte giovane di questo settore, che c’è e si fa sentire prepotentemente. È giusto che il pubblico lasci tutto questo spazio al privato? O avrebbe più senso rendere le cose più facili, collaborare tra tutti gli attori presenti, andando ognuno ad attingere dalle competenze e dal sapere degli altri? Sembra ancora troppo difficile e allora ci lasciamo andare in un percorso che continua a vivere in un doppio binario. C’è la tradizione, quella delle nostre nonne, che sembra essere sacra e appannaggio solo degli “antichi”, come se dovessimo ripeterci all’infinito che “prima tutto era meglio”. E poi c’è la tradizione che si sta costruendo nelle strade, nelle cucine vere, nella terra. E no, questa non vuole essere una critica alle radici, ma un’ammissione dell’importanza di trovare un punto di incontro, che possa essere terreno fertile per raccontare un settore in perenne (fortunatamente) cambiamento.