Nel tentativo di recuperare terreno sulle batterie, il componente più importante per la nuova industria “verde”, l’Unione europea sta pensando di imitare la Cina. Come Pechino, cioè, ha costretto le aziende straniere a condividere le loro proprietà intellettuali con i soci cinesi in cambio dell’accesso al mercato nazionale, così vuole fare Bruxelles: stando alle fonti del Financial Times, la Commissione europea ha in mente di obbligare le società cinesi di batterie ad aprire fabbriche in Europa e a trasmettere il know-how alle imprese europee in cambio dell’accesso ai sussidi comunitari.
Queste nuove regole verranno applicate per la prima volta a dicembre, quando si apriranno le candidature all’Innovation fund 2024, che ha stanziato un miliardo di euro per i progetti innovativi sulla manifattura di batterie. Eventualmente, le norme potranno essere estese anche ad altri piani di incentivi alle clean tech.
Secondo la Commissione, il trasferimento tecnologico forzato servirà a ridurre il divario con la Cina, che è molto avanti nella produzione non soltanto di batterie ma anche di veicoli elettrici e pannelli solari, e che è arrivata a minacciare pure i costruttori europei di turbine eoliche e di elettrolizzatori. L’Unione europea si è data degli obiettivi minimi di manifattura interna per tutti questi dispositivi in modo da evitare che la transizione energetica, attraverso l’afflusso di importazioni cinesi a basso prezzo, causi il collasso della propria industria. Il piano sul technology transfer, però, è di difficile realizzazione, per tre motivi.
Il primo è che la base industriale europea nei nuovi comparti della “sostenibilità” è minima. Come dimostra la parabola di Northvolt, costruire capacità da zero è molto difficile: la startup svedese sarebbe dovuta diventare la campionessa regionale delle batterie per auto elettriche, e invece è finita in bancarotta. Northvolt, in teoria, aveva tutto il necessario: tanti finanziamenti, un ricco portafoglio di ordini e sostegno mediatico. Ma non è bastato. Esiste una difficoltà oggettiva nell’emergere in un settore già dominato dai colossi (come Catl e Byd, cinesi) e nel cercare contemporaneamente di sviluppare l’economia di scala e di fare innovazione.
La Commissione europea, allora, conta di farsi aiutare dalla Cina, attirando a sé le società di batterie: Catl, in effetti, si è già insediata nei confini dell’Ue, tra fabbriche attive e in costruzione. Il problema – ed ecco il secondo dei tre motivi – è che la Cina intende preservare il suo vantaggio competitivo. Il governo di Pechino ha chiesto infatti alle case automobilistiche di mantenere in patria le tecnologie critiche per la mobilità elettrica e di considerare gli stabilimenti all’estero come dei siti di assemblaggio, perché il vero valore aggiunto non deve lasciare il Paese asiatico. Insomma, anche ammesso che l’Europa si doti di “aziende-recipienti” del trasferimento tecnologico cinese, e anche ammesso che riesca a creare una filiera mineraria propria (elemento fondamentale oggi assente), la Cina non sembra granché collaborativa.
Il terzo motivo che complica il piano di Bruxelles si chiama Donald Trump. Il presidente eletto ha promesso di mettere dazi del sessanta per cento su tutte le importazioni dalla Cina. È dunque probabile che Pechino, in risposta, proverà a far passare le sue merci attraverso paesi terzi, in modo da aggirare le barriere al mercato statunitense. Non fosse che il team di Trump sta già pensando di punire anche le triangolazioni commerciali, applicando – per esempio – tariffe sui beni che transitano per i porti latinoamericani sotto controllo cinese.
Trump considera l’Unione europea una «mini-Cina» e le fonti del Financial Times dicono che farà pressione su Bruxelles affinché ponga a sua volta degli argini alle importazioni e agli investimenti dalla Repubblica popolare. Tra Palazzo Berlaymont e la Casa Bianca c’è tanta distanza, sembrerebbe: il primo vuole più produzione cinese sul proprio territorio, la seconda vuole che Pechino resti lontana.
Il senatore Marco Rubio, nominato da Trump come Segretario di Stato, è il più feroce oppositore dell’accordo di licenza tecnologica tra Ford e Catl per una fabbrica in Michigan, sostenendo che la partnership «non farà altro che aumentare la dipendenza degli Stati Uniti dal Partito comunista cinese per la tecnologia delle batterie». Più recentemente, Rubio ha proposto la messa al bando della società per via dei suoi legami con il governo e le forze armate di Pechino: «L’affidamento e l’uso delle batterie di Catl minaccia la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, in quanto rende la nostra nazione dipendente dalla Cina comunista per le infrastrutture energetiche».
Se il pensiero del prossimo Segretario di Stato è netto, è invece più sfumato quello del presidente eletto, che promette durezza con Pechino ma non è contrario agli investimenti cinesi in America purché i loro stabilimenti diano lavoro agli americani. Il presidente di Catl ha detto di essere disposto a costruire una fabbrica negli Stati Uniti se non ci saranno ostacoli politici, ma i repubblicani al Congresso potrebbero effettivamente rappresentare uno scoglio. E non solo loro: l’accordo tra Catl e Ford ha innervosito anche il governo cinese, che vuole assicurarsi che la casa automobilistica americana non accederà alle tecnologie critiche del campione delle batterie.
La competizione tecno-politica tra gli Stati Uniti e la Cina è accesa e l’Unione europea non potrà non tenerne conto nella sua pianificazione industriale “verde”, la quale dovrà trovare un (difficile) equilibrio tra la tutela dei propri comparti produttivi, il raggiungimento degli obiettivi climatici e il mantenimento di buoni rapporti con l’alleato a Washington.