«Ma quando ebbero cacciato il bisogno di cibo e bevanda, Aiace fece un segno a Fenice, lo intese Odisseo glorioso, riempì la coppa di vino, la sollevò verso Achille e disse “salute Achille”» (Iliade IX, 221-225).
I Greci accampati fuori dalle mura di Troia alzano il calice e rendono omaggio al più forte tra loro. Già allora, più di tremila anni fa, il brindisi era un atto gioioso e insieme augurale, ospitale e quasi sacrale. L’usanza di legare la buona sorte a un bicchiere di vino è antichissima, e se ne scopre traccia persino nella Bibbia, ma è nella cultura greca che trova una sorta di codificazione. Filotesia posis, il bere all’amicizia, si chiamava il gesto del brindare: si alzava il bicchiere verso un amico, lo si chiamava per nome e si beveva “alla sua”. L’altro a sua volta doveva ricambiare bevendo dalla stessa coppa. Si pronunciavano frasi benaugurali, come «bevo alla tua salute» e si rispondeva dicendo «ricevo con gioia da te l’augurio».
Ovviamente la funzione conviviale era legata a quella rituale, derivata direttamente dalla libagione agli dei. Una funzione sacra come sacra era in Grecia l’ospitalità, sancita a tavola da un cerimoniale di cui la distribuzione di cibo e vino faceva parte. In epoca classica, nei banchetti, il vino veniva portato in tavola dopo la prima portata ma era al termine del pasto che aveva inizio il simposio vero e proprio, ossia il momento del «bere insieme»: un momento tanto importante che un maestro di bevute, il taxiarca, era eletto perché stabilisse la quantità di vino da mescere, l’ordine dei brindisi e i turni di parola.
Il brindisi passò dalla Grecia a Roma, un’importazione sottolineata dall’espressione bibere graeco more, ossia bere alla greca, usata dai latini, che dal greco avevano derivato anche il termine propinatio, bere alla salute, bere a favore di qualcuno. Plauto, grande commediografo, ci ha tramandato alcune formule come bene vos, bene nos, bene te, bene me, un vero e proprio brindisi. Tra amanti era frequente, come testimonia Ovidio, l’abitudine di brindare passandosi la coppa dopo aver intinto il dito nel vino, per scrivere il nome dell’amato o dell’amata sul tavolo.
Nel Medioevo l’uso di brindare non andò perduto. Una bellissima immagine di questo rito è contenuta nello splendido arazzo di Bayeux, che racconta in immagini le vicende della conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni. In una scena i potenti riuniti a tavola brindano convivialmente secondo l’uso sassone, a rafforzare alleanze e cameratismo passando la coppa di mano in mano e di bocca in bocca. Del resto nel Nord Europa la tradizione della libazione era conosciuta da tempo, e comprendeva l’uso di invocare gli dei, gli eroi e i sovrani sollevando il corno potorio, colmo di birra. La stessa parola brindisi viene da Nord, dall’antico tedesco bring dir’s, “«lo porgo a te».
Ai secoli del Medioevo risalirebbe, secondo alcuni, l’usanza di sbattere le coppe una contro l’altra, per far cadere gocce di vino nel bicchiere del vicino: uno stratagemma per evitare gli avvelenamenti, visto che in questo modo tutte le bevande finiscono con il mischiarsi. E in francese il verbo trinquer indica specificamente il bere alla salute di qualcuno facendo scontrare i bicchieri.
La Francia non si sottrae alla tradizione del brindisi, ma Luigi XIV, il Re Sole, ne vietò la pratica, se non in occasione dell’Epifania. E proprio sotto il suo regno il monaco benedettino “inventò” lo Champagne, il vino dei brindisi per antonomasia.
In Italia, invece, per lungo tempo si è evitato di brindare, prima perché ritenuto sconveniente dalla Chiesa, poi perché ritenuto semplicemente poco fine: di questo parere era monsignor Della Casa che nel “Galateo” scriveva «Lo invitare a bere (la qual usanza, siccome non nostra, noi nominiamo con vocabolo forestiero, cioè far brindisi) è verso di sé biasimevole, e nelle nostre contrade non è ancor venuto in uso, sicché egli non si dee fare». Evidentemente il suo consiglio non è stato seguito, e oggi nel nostro Paese alziamo i calici e li facciamo tintinnare con gioia in ogni bella occasione: un aiuto in questa direzione è venuto da Francesco Redi, che con il suo “Bacco in Toscana” elogiò nel Seicento l’allegria donata dal brindare. E con lui ancora oggi diciamo «E a te brindisi io fo, perché a me faccia il buon pro».