Bologna grandeJovanotti, Carboni, la canzone di Natale e la nostalgia degli anni 90

Questo sarebbe dovuto essere un articolo sui miei vent’anni e sull’uso discriminatorio di «ciccioni» nei testi del Novecento. Ma poi, mentre si aspettava l’arrivo di Lorenzo e Luca, è salito sul palco Ron e ha fatto la canzone che mi fa più piangere di tutte

LaPresse

È dall’autunno del 1992 che voglio fare un articolo che cominci così, e considerato che nell’autunno del 1992 pensavo che da grande avrei fatto l’attrice e mai avrei pensato di scrivere sui giornali, capite bene che l’incipit che mi accingo a scrivere precede ogni mia intenzione.

Sì lo so che non è più incipit, perché ormai l’inizio non è più quello, ma moralmente l’incipit è quello che sto per scrivere, e se avevate vent’anni in quegli anni lì capirete. L’incipit è: è quasi Natale, e a Bologna che freddo che fa.

La scena funziona così, l’ha pensata Nicoletta Mantovani per l’esordio dell’orchestra della Fondazione Pavarotti e per il ritorno su un palco di Luca Carboni. Solo che non l’ha detto a Carboni, non l’ha detto a quel tizio che nel 1992 fece quella canzone di Natale in tour con lui, l’ha detto solo a Simona Ventura, che presenta la serata, una serata a inviti in un dicembre bolognese dove per la verità non fa neppure così freddo.

La scena funziona così, durante le prove la Ventura la spiega a Luca e a Lorenzo, tu Luca inizi la canzone e poi ti fermi e dici no, però io questa da solo non ce la faccio, e allora entra Lorenzo e dice ma non sarai mai solo, siamo tutti qui per te. Carboni e Cherubini sono due educati signori di mezza età, Lorenzo dice «ah, dobbiamo fare uno sketch», Luca dice che magari potrebbe dire «cazzo però da solo no», Lorenzo suggerisce di dire «socmel», ma non sa fare le vocali bolognesi. (Rimasi traumatizzata quando scoprii, avrò avuto quindici anni, che «socmel», espressione che i bolognesi utilizzano con una certa qual disinvoltura, significa «succhiamelo»).

Quindi i due faranno una canzone che è la meno attuale del mondo, il Natale «io vengo da Milano per passarlo con mamma e papà», cantava il Lorenzo del 92, quello del 2025 dice «vengo da Cortona, e mamma e papà sono morti: mamma e papà adesso siamo noi, facciamocene una ragione».

Però la cantano tale e quale, e quando obietto che non si può dire «e i nostri dischi si vendono di più», i dischi non esistono più, l’anziano cantante mi ride in faccia: «E perché, “ci mangiamo i panettoni: il giorno che è nato Cristo diventiamo più ciccioni”? Prova a scrivere “ciccioni” in una canzone adesso».

Questo doveva essere un articolo sui miei vent’anni e su quando esistevano i consumi culturali condivisi, e io quasi non sapevo che esistesse Jovanotti (Carboni sì: sono di Bologna, noi crediamo nel cantautorato locale e nel fatto che esistono i tortellini e i tortelloni ma non i tortelli), quasi non lo sapevo eppure quella tournée di sole sette date e quel disco d’un anno dopo arrivarono anche a me come a tutti, e siamo sempre lì: gli anni Novanta devi averli vissuti, per capire (Courtney Love la settimana scorsa ha detto «gli anni Novanta se te li ricordi vuol dire che non c’eri», che pure è un buon criterio).

«“Ciccioni” lo dici te», dice Lorenzo a Luca in camerino, mentre dal telefono riascoltano “O è Natale tutti i giorni” per ricordarsi come la cantassero negli anni in cui se non ti ricordavi una canzone o avevi il cd e un lettore o ti attaccavi al tram, negli anni in cui «ciccioni» non era parola con cui rischiare il danno reputazionale.

«La proviamo di nuovo?», «Però senza sketch», gigioneggiano i due, che sembra abbiano finito quel tour l’altroieri, a parte il dettaglio di non ricordarsi chi cantasse cosa, quello di avere figli grandi, quello di venire da Cortona e non da Milano, quello di avere avuto entrambi guai di salute di cui è impossibile non parlare in ogni intervista (la vecchiaia è quella cosa che se dai un’intervista un terzo è fatto di cartella clinica).

Questo doveva essere un articolo su «il giorno che è nato Cristo, arricchiamo gli industriali», che oggi sarebbe uno slogan della rivoluzione su Instagram e quando avevamo ancora un po’ di gusto era il verso d’una canzonetta di Natale. Ma poi, mentre si aspettava l’arrivo di quello che viene da Cortona a fare lo sketch, è salito sul palco Ron.

Ha fatto la canzone che mi fa più piangere di tutte, “Piazza grande”, ha fatto “Vorrei incontrarti tra cent’anni” (che mi fa lanciare nella notazione «ma l’arpeggio iniziale è lo stesso di “O è Natale tutti i giorni”!», perché a Bologna la mitomania è nell’aria; Carboni mi fa notare che non è un arpeggio con quel garbo che ha solo lui nel non dare della capra a una capra).

Ma, soprattutto, ha fatto “Chissà se lo sai”, che tutti conosciamo come canzone di Dalla perché la incise lui, ma era di Ron come alcuni clamorosi successi di Dalla (tra cui “Attenti al lupo”). E quando all’inizio dice «ti ho guardato e per il momento non esistono due occhi come i tuoi», io sono quasi svenuta in preda a sindrome di Stendhal. Quanto genio c’è in quel «per il momento»? Quanto?

Se al liceo non avessi comprato la musicassetta in cui Anna Oxa cantava i cantautori, io “Anima” non l’avrei mai sentita, e “Anima” è un capolavoro. E quindi passo il resto della serata a chiedermi se Ron sia il più sottovalutato autore della storia della musica leggera, invece di concentrarmi e produrre una schiacciante inchiesta giornalistica sull’uso discriminatorio di «ciccioni» nei testi del Novecento, o anche solo di concentrarmi su alla fine chi canti la parola indicibile, tra i due anziani cantautori invero assai snelli.

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