Bologna, AlaskaIl disco di Cremonini, la canzone di San Luca Carboni, e la forza irrazionale del pop

Due bolognesi si smezzano un miracolo, un santuario, molti portici, e moltissimi di quegli spasmodici trucchi di radianza che attraversano la musica leggera

Lapresse

«Io non la so fare una preghiera: chiedo solo quello che si avvera, così sono sicuro che non ci perde nessuno»: è la prima cosa che dice Luca Carboni entrando in “San Luca”, che in questo caso è una canzone del nuovo disco di Cesare Cremonini, ma per i bolognesi è il santuario al quale si va, appunto, a chiedere i miracoli. E quello lì è il momento in cui penso che sì, il villaggio è globale e Cremonini avrà pure fatto un disco sul suo viaggio in Alaska, ma qui tocca parlare di Bologna – so che Cesare capirà.

(È quello, anche, il momento in cui penso a quella scena di “La famiglia” in cui l’amore inconcluso di Vittorio Gassman e Fanny Ardant diventa litigio furibondo. Lui le urla qualcosa tipo: e allora vattene, tu te ne vai sempre; e lei gli risponde: e tu resti, tu resti sempre. All’inizio mi pare non funzioni la similitudine, essendo Cremonini uno che se ne va sempre ma torna sempre. Però, sul ritornello «càpita anche a te», Cremonini chiude il «te» per sembrare meno prodotto locale, mentre Carboni sfacciatamente apre le vocali, rivendicando d’esser sempre rimasto a Bologna. Quindi, se rifanno “La famiglia”, il patriarca lo fa Carboni).

“San Luca”, dicevo. Una volta ho un po’ bisticciato con Cremonini per un articolo su di lui che non gli era piaciuto; cioè, non abbiamo davvero bisticciato, perché lui è troppo cerimonioso per litigare, ma mentre si lamentava credo di avergli con la mia abituale modestia detto «Dovresti andare a san Luca a piedi per ringraziare», che è una frase che si capisce solo tra bolognesi.

Naturalmente se sei bolognese quando Carboni canta di non aver chiesto miracoli piangi, piangi appena capisci che quella voce lì è di Luca Carboni, perché ha avuto un cancro ed è guarito abbastanza da poterne parlare e quindi pensi che sì, va bene, l’io narrante, ma pure il fatto che mica lo sapeva se avrebbe cantato di nuovo e che angoscia e che ipocondria mia da proiettare sulle cartelle cliniche altrui.

Se sei bolognese a quella frase lì piangi persino se sei me, che sono una bolognese talmente atipica da non essere mai stata a san Luca (non ci si va solo per i miracoli, ci si va anche a camminare, perché è in salita e si bruciano calorie; ho un’amica che ci va tutte le mattine: morirà magrissima). Persino se sei una bolognese così priva di spirito d’osservazione che dei portici ti accorgesti ormai adulta, quando Guccini disse in un’intervista che Bologna è così accogliente che se piove neanche ti bagni.

Ma forse piangi anche se non sei bolognese, perché Bologna ha questa strana caratteristica di stare nel cuore soprattutto a chi non la frequenta. Ogni volta che Cremonini canta dal vivo quella macchina da guerra che è “50 Special”, io guardo stadi di forestieri agitarsi squarciagolando «ma com’è bello andare in giro per i colli bolognesi», e chissà che ne sanno, ma d’altra parte pure noi squarciagoliamo la “New York New York” fatta da Sinatra, l’“Empire” di Jay Z, e chissà quanti altri luoghi dell’immaginario visti neanche in cartolina.

(Nei luoghi delle canzonette occorre esserci stati per entrarci con più impeto, o posso ritenere d’aver visitato Poggioreale solo perché ho sentito alcuni milioni di volte «io mi chiamo Pasquale Cafiero e son brigadiero del carcere oiné»? Quanti ascolti di “Puttin’ on the Ritz” servono prima di percepirsi una che ha pernottato in una suite? Si può non sapere niente nientissimo della questione d’Algeria eppure sentirsi comprese da “J’adore Venise”?).

La settimana scorsa – quasi Natale, e a Bologna che freddo che fa – si è inaugurata una mostra al Museo della Musica, ci sono i disegni e le sculture e tutte le robe che Luca Carboni fa da decenni nella sua casa di campagna: non è mai stato un tipo chiassoso, e quindi il suo ritorno alla vita pubblica l’ha fatto coi quadri, poi la canzone con Cesare, poi un libro e altro che ora non stiamo a dire e insomma, scusate la citazione bolognese, quanta vita c’è.

(Ho il sospetto che “San Luca” Carboni l’abbia incisa in modo che, se i tg danno notizie della sua ritrovata salute, non siano così banali da metter su quella che «ci vuole un fisico bestiale, e il mondo è un grande ospedale»; che poi, se c’eri negli anni Novanta, ti viene da cantarla in versione imitazione di Alba Parietti ad “Avanzi”, «ci vuole un fisico bestiale, per fare l’intellettuale»).

L’inaugurazione era – come accade quando uno per un po’ non ha saputo se sarebbe vissuto ancora abbastanza da inaugurare una mostra o altro, quando gli altri hanno avuto paura per lui – un funerale da vivo: piangendo ti veniva da ridere (oggi va così, giriamo i diritti d’autore di questo articolo al cantautorato italiano) a vedere la gente d’una vita che gli si avvicinava, lo voleva toccare, voleva la foto come fossero fan sconosciuti invece che vecchi amici. Una cosa (ve l’ho detto: oggi va così) a metà tra «questa vita è bellissima, anche se a volte mi tira giù» e «noi non siamo ancora morti: se possiamo guardarci in faccia vuole dir che siamo vivi».

A un certo punto di “San Luca”, Carboni dice che «càpita anche a te di continuare ad aspettare i suoi miracoli, io come te non li so fare, però è bellissimo sperare che non sia tutto qui», e a parte chi rischia di morire e gli viene strizza e conseguente spiritualità, è un momento interessante per i discorsi dei cantanti sulle religioni. Domenica Jovanotti ha detto ad Aldo Cazzullo che lui “Imagine” non la vuole cantare perché non gli sembra abbia gran senso l’idea d’un mondo senza religioni (lo so, non l’avete letta perché dal titolo sembrava un’intervista in cui non ci fosse una cosa non già detta trecento volte; date retta a zia: rimediate); io, che circa cento volte l’anno osservo che da quando non credete più in dio credete in qualunque puttanata, ho annuito fino a slogarmi il collo e sono corsa a sgranare un rosario pur essendo tenacemente atea.

L’inaugurazione della mostra, dicevo. C’era un regista di videoclip che parlava con l’ex manager di Carboni d’un video di più di trent’anni fa, e chiunque se lo ricordava meglio del regista che l’aveva girato, il quale a un certo punto, mentre sorseggiava una Coca Zero come fanno quelli che hanno smesso con tutto, ha sbuffato che cosa si poteva mai ricordare, lui, di quegli anni in cui era sempre strafatto.

Ho pensato a quella cosa che una volta ha detto Baricco, «gli anni Novanta bisogna averli vissuti, per capire»; ho pensato cosa son venuta a fare, ho già un sonno da morire; ho pensato che comunque mi fa piangere tantissimo anche “Mare mare”, chissà poi perché, sarà l’incredulità d’essere sopravvissuta a tutte quelle volte fino alla Baia Imperiale in due in motorino; ho pensato ai miracoli dell’unica canzone che salto in quel disco del 1980 intitolato solo “Dalla”.

L’ho già raccontato un milione di volte ma ho intenzione di rivendermelo in eterno (di solito senza citare la fonte): una volta ho chiesto a Cesare Cremonini quale fosse la più bella canzone italiana di tutti i tempi, e lui ha detto «una qualunque di uno di quei quattro dischi in cui Dalla è Michelangelo», e io per quella risposta gli voglio persino più bene che per “Nessuno vuole essere Robin”, tra le mie canzoni preferite di questo secolo oltre che a modo suo un mezzo miracolo (stadi di tizie che dormono col cane che squarciagolano sprezzo per lei che vuol dormire col cane: se me lo chiedessero, direi che il pop è saper ottenere questo risultato di purissima irrazionalità).

Lo so che ogni volta qualcuno (qualcuna, più spesso) mi vuole menare, ma per me, in quel disco maggiore di Dalla, “La sera dei miracoli” è una canzone minore: come si fa, in un disco che ha “Il parco della luna” e “Siamo dèi”, a dar retta a una canzone sui vicoli di Roma, dai, su.

Comunque niente, Luca Carboni, l’unico che sia mai riuscito a mettere «solo uso foresteria» in una canzone, è tornato, e senza bisogno di miracoli o di trucchi di radianza: le ragazze del secolo scorso ne sono liete, perché insomma, non abbiamo un rapporto risoltissimo con la morte, noialtre cui il lessico per le emergenze l’ha dato quella canzonetta che faceva «lei è lì che muore, oddio non so che fare, io chiamo l’ascensore ma non risponde mai» (gli anni Novanta bisogna averli vissuti, per non aver bisogno di Google).

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