Nessuno sapeva dove fosse Olympia. Non lo sapevamo al punto che, nel 2001, io scrissi d’una biografia di Kurt Cobain sull’inserto d’un quotidiano, e il pezzo era lungo, e la redazione pensò bene di accorciare il passaggio in cui parlavo dell’infanzia nello stato di Washington, e di farla diventare un’infanzia a Washington, la città, quattromilaecinquecento chilometri più in là.
Nessuno – più precisamente: nessuna – lo sapeva eppure non c’è stata una ragazza che nel 1996 non abbia squarciagolato «when I went to school, in Olympia-a-a-a», uscite dai cinema in cui Liv Tyler ce l’aveva nelle cuffie mentre si agitava davanti allo specchio in “Io ballo da sola”. (Che meno di trent’anni fa fosse normale per le ventenni andare al cinema a vedere Bertolucci spiega la contrazione culturale del presente meglio di come saprei farlo io, ma ora non distraiamoci).
Noialtre distratte Courtney Love l’abbiamo scoperta lì, nelle cuffie del walkman di Liv Tyler, nella rappresentazione della ragazzina in una vacanza di vecchi. (Mi spiace che “Io ballo da sola” non stia su nessuna piattaforma, mi spiace non possiate rivederlo, perché vorrei sapere se è solo mio lo straniamento di guardare all’età di Jeremy Irons il film che ti aveva fatto un’impressione così diversa all’età di Liv Tyler).
Quelle più attente a essere in sintonia col presente ne seguivano le gesta da almeno due anni, da quando era morto Cobain e la conversazione collettiva aveva deciso che era colpa sua, che era la vedova nera, la nuova Yoko Ono, che quel disco lì in cui lei andava a scuola a Olympia «and everyone’s the same: we look the same, we talk the same, we even fuck the same» gliel’aveva scritto lui; come se le ragazze di provincia, per raccontare la provincia, avessero bisogno dei mariti (come Cobain fosse stato in grado di scrivere dei versi così formidabili, anche).
Chissà il delirio se all’epoca ci fossero stati i social, luogo di maturazione della più stupida delle dinamiche umane: la convinzione di conoscere le vite degli altri; ancor peggio: la convinzione di sapere come reagiresti tu in circostanze impensabili, come sia giusto reagire. Dai, spiegateci un po’ qual è il giusto atteggiamento quando tuo marito si spara, vi ascoltiamo.
«Voglio essere la ragazza con la fetta di torta più grossa, lo amo così tanto che diventa odio, fingo così forte che sono oltre la finzione». Sono tre versi di fila, stanno in “Doll parts”, una canzone del disco che secondo gli scemi le aveva scritto Kurt, il disco che la cretina me scoprì con due anni di ritardo, il disco uscito una settimana dopo il suicidio di Kurt. Sono tre versi di fila, c’è gente del mestiere che per avere tre versi così anche in tre diversi dischi darebbe un rene, ma Courtney Love era bruttina e rumorosa e imperdonabilmente viva, e quindi è andata così: che il pubblico ha deciso fosse il capro espiatorio perfetto dei suoi malumori.
Avanzamento veloce di quattr’anni e un po’. Courtney Love nel frattempo si è drogata parecchio, ha litigato abbastanza da farsi pure arrestare, ha fatto l’attrice. Miloš Forman l’ha voluta a tutti i costi per “Larry Flynt”, e «costi» è da intendersi in senso letterale: il premio assicurativo per una che ha raccontato ai giornali d’essersi fatta d’eroina in gravidanza era troppo alto per i produttori, alla fine lo pagarono Forman e la Love.
Soprattutto è diventata bella, soprattutto è diventata stilosa, soprattutto è stata fidanzata con uno solidissimo e talentuoso e apparentemente privo di menate: Edward Norton, praticamente il contrario di Cobain. A settembre del 1998 esce quello che diventerà il mio disco preferito di fine Novecento, “Celebrity skin”. Un certo Francis Scott Fitzgerald diceva che godersela era la miglior vendetta, ma anche fare un disco della madonna una volta morto quello che dicevano ti scrivesse le canzoni non è malaccio.
Sono andata a cercare un’intervista che le feci nel 2010 perché volevo ricopiare il passaggio in cui mi dice ma quando mai, “Playing your song” non parla di Kurt, e “Playing your song” è quella in cui «vendono a milioni, adesso, ti hanno svenduto, e ho dovuto dirgli che te n’eri andato, ho dovuto dirgli che ti eri sbagliato, e ora suonano la tua canzone». Ma, per capire come Courtney Love sia rimasta Courtney Love, forse è più utile ricopiare l’incipit.
«Vuoi andartene affanculo e lasciarci in pace? Questo è un ottimo mercato! Non sarà il mercato più importante del mondo, ma è un mercato che mi interessa, e questa donna mi ha sentito sproloquiare finora e ci servono altri cinque minuti! Non è mica per difendere te, eh, è per comparire sulla stampa del tuo paese».
Stava parlando col tour manager che continuava a interromperci, il concerto doveva cominciare, e poi spiegava a me che mica lo cazziava perché le fregasse qualcosa di me, e io nel frattempo non ero ancora riuscita a farle neanche una domanda. In compenso mi aveva fatto vedere sul telefono (ricopio dall’articolo d’epoca) «un messaggio che ha coperto con le dita lasciando fuori solo l’ultima riga, quella in cui c’era scritto Repubblica (voleva sapere come si scrivesse), spiegandomi che era per “un mio amico che è etero ma sa tutto di moda, credo sia, tipo, quello per cui è stato inventato il termine metrosexual” (domanda: è David Beckham? Risposta: “Gli piacerebbe, a David: David è un ragazzino”); una foto di lei con Marc Jacobs (aveva appena finito di dirmi che, portando il 40, non trova le scarpe di Caovilla, “come quando vai da Marc e ci sono solo delle taglie 38”); un primo piano del suo fondoschiena, “Quando ce l’avevo, adesso che sono così magra…»; una foto di lei con Michael Douglas; una foto di lei, due sere prima, a un concerto a Varsavia, «il più imponente palazzo dell’architettura fascista, su quel palco ho capito la definizione di narcisismo, ho mandato subito un messaggino a Michael Stipe per dirglielo»; una foto con Jeff Buckley, scattata da un paparazzo, lei sorridente lui scocciato. “Mia figlia ora si è tatuata il primo verso di Grace su un braccio, e noi uscivamo insieme”».
Quasi tutta l’intervista era stata così, piena di nomi famosi lasciati cadere con disinvoltura, incluso un aneddoto meraviglioso su lei e Marianne Faithfull e Carrie Fisher che vanno insieme a una riunione dell’Alcolisti Anonimi e all’uscita quelle due le danno dell’esibizionista, e uno sul fatto che lei non scopa coi musicisti ma gli altri non sanno niente di musica e si è trovata a cena con uno che non aveva mai sentito “Like a rolling stone”, e una domanda sua a me sul seguito di “Wall Street”, «se non me lo dici tu chiamo Oliver» (Oliver Stone, per i più tardi).
Era un’intervista incredibile e la prova che le interviste le fanno gli intervistati, mica gli intervistatori: non esistono brutte interviste a Courtney Love, perché Courtney Love le ha passate talmente tutte che non ha paura di niente. Non ha paura di niente e sa tutto.
Chi conosce il mondo solo dai social ha visto almeno due suoi filmati. Uno del 2005, dodici anni prima del MeToo, in cui dice in un’intervista che Harvey Weinstein è un porco e se vi convoca nella sua stanza d’albergo non andateci (se solo questa signora venisse ascoltata, quando parla).
E uno in cui dice che nel suo staff ci sono solo persone che non stanno sui social, gente capace di concentrarsi. Mi torna in mente che nel 2010 – anno di nascita di Instagram, prima che le Kardashian trasformassero Hermès da marchio più sofisticato del lusso a più sputtanato – mi aveva raccontato d’aver regalato una Birkin alla figlia per i suoi diciott’anni, ma solo una, «due Birkin? Poi cosa? Essere Victoria Beckham?». Questa donna capisce la degenerazione dei fenomeni di costume più lucidamente e rapidamente d’intere facoltà di sociologia.
Ieri Courtney Love ha compiuto sessant’anni. A quaranta fece vedere le tette a Letterman in tv, adesso mi aspetto trovi nuovi modi di scandalizzarci, esibizionismi ancora più inappropriati, versi ancora più belli.
Nel 2010 aveva fatto un disco stupendo; la mia canzone preferita, “Never go hungry”, cominciava così: «È lunga la strada di ritorno da dove sono caduta, e dolorosa la caduta e crudele la città, e ho un vestito strappato e niente gioielli, e fame di una vita un po’ meno crudele» (già mi vedo le aspiranti insegnanti di italiano delle medie che inorridiscono, quante ripetizioni, un bel dizionario dei sinonimi, orsù).
Parlava d’una fenice che rinasce, e non le importa cosa tocchi fingere, ma non avrà fame mai più. Rileggo la me di quattordici anni fa e mi faccio tenerezza, io che tento di spiegarle che sì, certo, il riferimento a Rossella O’Hara, ma quella da emulare in “Via col vento” è Melania. E, ottusa, lo dico proprio a lei: la più Rossella che sia mai passata nel pop, la più fenice, la più determinata a vivere, alla faccia di quelli di Olympia e nostra.