AlternativeIl caviale è un lusso a cui possiamo rinunciare?

Considerate simbolo di sfarzo controverso e senza limiti, oggi le uova di storione mantengono un alto valore sul mercato globale, ma chef e aziende si stanno impegnando per creare opzioni sostenibili a base di alghe, broccoli e semi giapponesi

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Il settore gastronomico è forse tra le realtà che, negli ultimi decenni, ha accolto con più sensibilità stimoli etici ed ecologici, impiegando ingredienti nuovi e studiando tecniche di trasformazione alternative, cotture a basso consumo e metodi di conservazione poco impattanti, creando proposte alimentari volte a sostituire i grandi classici della cucina sia nell’alta ristorazione che nei frigoriferi casalinghi. D’altra parte si tratta ormai di una tendenza che coinvolge buona parte dei consumatori, anche in un Paese un tantino conservatore in fatto di alimentazione come l’Italia. Ne è la prova il Rapporto Italia 2024 di Eurispes, secondo il quale ormai il dieci per cento della popolazione italiana si definisce vegetariano o vegano, un dato in forte crescita rispetto all’anno precedente.

La forza di questo cambiamento, che non può che essere a lungo termine, è tale che ha ormai investito anche prodotti considerati di lusso, alimenti apparentemente intoccabili, cristallizzati a tal punto nell’immaginario comune che sembra impossibile ipotizzare una sostituzione o una rinuncia. Come il caviale.

Tecnicamente il caviale è un alimento ottenuto dalla lavorazione delle uova di storione, un pesce dalle origini antichissime, risalenti a duecento milioni di anni fa, diffuso in acqua dolce e salmastra in ventisette specie diverse. Considerato un bottino pregiato anche per la qualità delle sue carni, oltre che per le uova, per molto tempo lo storione è stato preda di un mercato senza scrupoli, che ne ha decimato gli esemplari in circolazione. Una caccia pressoché indiscriminata, che ha finito per ritorcersi contro chi la praticava: nel 1997 infatti lo storione è stato dichiarato in via d’estinzione e posto sotto la protezione della Convenzione di Washington. Da allora la pesca dello storione selvatico è stata prima fortemente limitata e poi, nel 2009, vietata.

Oggi dunque la filiera del caviale passa obbligatoriamente dagli allevamenti di storione, oltre che da una serie di verifiche accurate, volte a tutelare sia il pesce che il consumatore. Tuttavia, ai margini di questo scenario finalmente controllato, persistono ancora fenomeni illegali, come il bracconaggio e la contraffazione, che alimentano un mercato nero difficile da sondare.

A fronte di tutto questo, per anni il caviale è stato l’emblema gastronomico di un lusso sfrenato, controverso, eccessivo ed esclusivo, e qualcosa a cui l’alta cucina non poteva rinunciare. Oggi però, forse anche grazie al potere mediatico che molti chef hanno imparato a gestire negli ultimi tempi, non sono poche le insegne che scelgono di scommettere suglialternative caviar, preparazioni che riprendono forma, sapore e prezzo del caviale, impiegando alimenti sostenibili.

Il primo e più noto esperimento di questo genere vede protagonista il tonburi, ossia il seme del cipresso Kochia scoparia, un piccolo arbusto diffuso in Asia, Europa e America. È in Giappone però che il seme di questa pianta passa dalla botanica alla gastronomia e inizia a diffondersi, bollito e decorticato, prima nella cucina buddista e poi fuori dai confini del Paese, dove diventa noto come caviale di terra. L’aspetto tondeggiante e granuloso del tonburi, effettivamente, evoca l’estetica tipica del caviale, mentre il sapore delicato si presta facilmente a diverse preparazioni. Assaggiarlo fuori dal Giappone, però, è un’esperienza ancora poco comune, soprattutto a causa delle difficoltà legate all’esportazione di questo prodotto e al suo prezzo.

Ci è riuscito lo chef Daniel Humm, che da un paio di anni ha inserito il tonburi nel menu del ristorante Eleven Madison Park di New York. Qui il tonburi è proposto in una versione aromatizzata con alghe marine, che gli conferiscono note minerali e sapide, e abbinato ad avocado, cetriolo e menta.

Altri chef invece, hanno per ora abbandonato la caccia all’introvabile tonburi e percorso una strada diversa, come Ian Jones, chef dell’Elizabeth di Chicago, che nel 2022 ha raccontato a Eater di aver puntato sui semi di broccoli fermentati, poi lavorati in una salamoia colorata con polvere di carbone e mescolata con shio koji e gomma di xantano, che apportano salinità e consistenza, e uva di mare.

La stessa uva di mare, alga verde appartenente alla famiglia delle Caulerpaceae, è nota anche come caviale verde, a causa delle piccole sfere che la compongono e il sapore sapido e marino, ma raramente viene proposta come reale alternativa al caviale, bensì utilizzata in insalate o consumata cruda.

Il mercato intanto si è attrezzato, spesso facendo ricorso proprio alle alghe, anche per accontentare chi cerca una soluzione da riporre nel proprio frigorifero in attesa di un’occasione speciale. Sono dunque comparsi in commercio marchi come Cavi-art, azienda famigliare fondata nel 1988 in Danimarca da Jens Møller e ora gestita dai suoi eredi, che propone un caviale preparato lavorando alghe raccolte sulle coste francesi e norvegesi.

Una delle ultime novità risale allo scorso 8 novembre, quando il ristorante francese Gauthier Soho ha annunciato sulla propria pagina Instagram il debutto del “vegan caviar” nello shop online. L’idea, lanciata opportunamente sotto le feste, coinvolge due diverse versioni di vegan caviar, una classica e una seconda aromatizzato alla vodka, vendute in confezioni del tutto simili a quelle del caviale originale, a 61,95 euro l’una.

La ricerca del perfetto bilanciamento di sapori, racconta Alexis Gauthier, proprietario e anima del ristorante, è durata mesi, ma l’effetto finale è sorprendente e inganna perfettamente la vista.

E sorprendente è anche l’impegno e lo studio impiegati da Gauthier, da coloro che lo hanno preceduto, o che tutt’ora stanno lavorando, per provare a creare un prodotto tanto prelibato da riuscire a prendere il posto del caviale su un menu o, ancora meglio, nell’immaginario collettivo.

L’idea infatti, appare ormai evidente, non è solo quella di sostituire un sapore, ma anche un rito, e, non da ultimo, giustificare una spesa rilevante, seppure inferiore a quella del caviale di storione. E per raggiungere questo scopo non è detto che basti un buon cuore che batta per tematiche ambientaliste e sappia comprendere il valore della sostenibilità.

Insomma, il caviale di storione vale il suo prezzo perché richiede l’allevamento e il sacrificio del pesce stesso, oltre che la lavorazione del prodotto. Può un caviale a base di alghe, broccoli o semi, essere considerato altrettanto esclusivo? Ebbene, la risposta può essere positiva solo inserendo nell’equazione proprio il costo della ricerca compiuta da chi i piatti li immagina prima di cucinarli, li testa, più e più volte, studia i prodotti provenienti dagli angoli più lontani del globo e trova il modo di reperirli e assaggiarli.

È necessario dunque promuovere e diffondere l’idea che creatività, studio e ricerca non siano velleità per addetti ai lavori, ma meritino di essere messi sul conto allo stesso prezzo di attività meno sostenibili, come la pesca o l’allevamento. Questo è il cambiamento di mentalità su cui oggi la cucina sostenibile deve provare a investire per ampliare la propria platea e tentare di raggiungere i consumatori più conservatori, affezionati a un prodotto, un piatto, a un concetto di lusso ormai vecchio, polveroso e, direbbero alcuni, un po’ cringe.

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