Mentre la legge di bilancio catalizza tutte le attenzioni, c’è un’altra battaglia fondamentale che si sta combattendo nelle retrovie tra governo e sindacati. Una questione che è riuscita miracolosamente a ricompattare Cgli, Cisl, Uil e anche le associazioni delle imprese. Parliamo del decreto correttivo al Codice degli appalti, voluto fortemente da Matteo Salvini e approvato dal Consiglio dei ministri il 21 ottobre – ora all’esame delle commissioni parlamentari – che ha introdotto una norma che di fatto rompe il monopolio delle sigle tradizionali di lavoratori e datori di lavoro maggiormente rappresentative nella contrattazione collettiva. Con il rischio di aprire alla concorrenza al ribasso. Non proprio una mossa vincente per un governo che dice di voler alzare i salari, ma nel frattempo ha detto no al salario minimo e ha approvato una legge delega per riformare la contrattazione collettiva, che sembra ormai dimenticata.
Ma andiamo per ordine. La norma che modifica il Codice degli appalti stabilisce come va selezionato il contratto collettivo a cui si deve fare riferimento per decidere quanto pagare i lavoratori negli appalti pubblici, introducendo quattro «criteri comparati» per definire la «maggiore rappresentatività» di sindacati e associazioni datoriali. Tra i criteri ci sono non solo il numero dei lavoratori e delle imprese associate (dati tra l’altro mai certificati), ma anche la diffusione delle sedi legali (basterà appoggiarsi a commercialisti o consulenti del lavoro?) e il numero dei contratti collettivi sottoscritti dalla sigla. Più un quinto criterio eventuale che riguarda la presenza dei firmatari nel consiglio del Cnel. Nomine, queste, che sono anche politiche.
Per stabilire quanto pagare i lavoratori, quindi, si prenderebbe come riferimento anche l’accordo siglato dal sindacato che ha sottoscritto il maggior numero di contratti. Ma dal momento che qualsiasi associazione può firmare un numero indefinito di contratti collettivi, questo criterio crea di fatto una «equivalenza d’ufficio» tra tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro. Se tutti i contratti sono più rappresentativi, nessuno lo è più. Uno vale uno, insomma.
Al Cnel sono depositati novecentosettantuno contratti del settore privato, di cui duecentosettanta riguardano solo quindici dipendenti o anche meno. Ci sono oggi sigle sindacali e federazioni di micro-sigle specializzate nel firmare grandi numeri di contratti (trecentonove contratti risultano applicati solo a poco più di quarantacinquemila lavoratori), spesso patrocinati dai datori di lavoro che ricorrono ai servizi dei consulenti del lavoro per siglarli. Ovvero la stessa categoria che la ministra del Lavoro Marina Calderone ha presieduto per diciassette anni, lasciando poi la presidenza nelle mani del marito una volta arrivata in via Veneto. Le grandi confederazioni sindacali, invece, siglano molti meno contratti (duecentodieci in tutto), applicati a 13,3 milioni di lavoratori – con una media di sessantacinquemila lavoratori per ogni contratto – su 13,8 milioni totali: il 96,5 per cento.
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Nel 2014, Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno firmato il Testo unico sulla rappresentanza sindacale (nel 2015 si è aggiunta poi anche Confcommercio), che indica il criterio per “misurare” il peso dei sindacati in base al numero di iscritti e ai risultati nelle elezioni delle Rsu, le rappresentanze sindacali nelle aziende. I dati sugli iscritti sarebbero misurabili dall’Inps tramite le trattenute sindacali dei datori di lavoro. Mentre i risultati delle Rsu arriverebbero all’Inps dagli uffici provinciali del lavoro. E in effetti nel 2018 l’istituto di previdenza ha raccolto i risultati.
Ma, come ha raccontato Tito Boeri, per pubblicare i dati in suo possesso l’Inps aveva bisogno dell’avallo del ministero del Lavoro. La luce verde è stata inizialmente negata dall’allora ministro Luigi Di Maio. Ma non è mai arrivata neanche dai suoi successori: Nunzia Catalfo, Andrea Orlando e nemmeno da Marina Calderone.
Per cui, il sistema delle relazioni industriali in Italia è rimasto opaco. I dati dei sindacati sono autocertificati e non sono verificabili. E in più, come ha dimostrato uno studio della Copenaghen Business School, l’Italia è l’unico Paese in cui i dati forniti dai sindacati sono nettamente superiori rispetto a quanti nei sondaggi campionari si dichiarano iscritti a una sigla sindacale (trentadue-trentatré per cento rispetto al ventidue-venticinque per cento).
I dati raccolti dall’Inps nero su bianco avrebbero invece permesso di fornire un dato più significativo sulla copertura dei contratti collettivi e, quindi, sul grado di rappresentanza di sindacati e organizzazioni datoriali. I nuovi criteri indicati nella norma del codice degli appalti, invece, scardinano il sistema di conteggio del Testo unico. E sembrano fatti su misura per legittimare il nuovo discusso “contratto multi-manufatturiero” sponsorizzato dalla ministra Calderone e stipulato da due sigle poco conosciute, Confimi e Confsal. Una, la Confsal (Confederazioni sindacati autonoma lavoratori), è rappresentata al Cnel da due membri e partecipa abitualmente al festival organizzato dai consulenti del lavoro. La seconda, la Confimi, ha autocertificato di rappresentare quarantacinquemila imprese, ed è ritenuta molto vicina alla Lega di Salvini.
I sindacati confederali lo hanno definito subito come “contratto pirata”. E in effetti, 19 settembre scorso, data della presentazione del contratto al pubblico, quasi tutti gli invitati annunciati nella locandina hanno declinato l’invito, compresi il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il presidente del Cnel Renato Brunetta. Anzi, Brunetta in un comunicato ha spiegato di non essere andato perché il Cnel «tiene a battesimo solo i Ccnl in grado di esprimere la massima rappresentanza unitaria delle parti sociali». E invece l’unica rappresentante del governo a partecipare alla presentazione è stata proprio la ministra del Lavoro Marina Calderone.
Il nuovo Contratto collettivo nazionale intersettoriale di lavoro (Ccnnil) di confsal e Confimi è applicabile in diversi settori della manifattura, dagli alimenti al tessile, dalla chimica alla ceramica. Con l’obiettivo di sostituire, in questi comparti, i contratti collettivi in vigore firmati dai sindacati confederali. Aderendo a Confimi, quindi, un datore di lavoro potrà applicare il contratto. Contratto che, guarda caso, risponde in pieno ai requisiti legali che il governo ha individuato nel nuovo codice degli appalti per la maggiore rappresentatività. Come ha scritto la professoressa Lucia Valente, «è infatti assai probabile che sarà proprio questo nuovo contratto ad avere i titoli per essere individuato come parametro per la determinazione del costo del lavoro, almeno negli appalti cui si applicherà il nuovo codice».
Risultato: il governo nega il salario minimo per legge e contemporaneamente rompe il monopolio tradizionale delle parti sociali. E nel frattempo, dice Marco Leonardi, fa anche qualche piccolo favore ai consulenti del lavoro – guarda un po’ – che certificano i criteri di rappresentatività dei contratti.
Cgil e Uil, ma anche Cisl, hanno presentato le proprie critiche nelle audizioni in commissione alla Camera. Mentre Confindustria, Abi, Ania, Confcommercio, Confcooperative, Legacoop hanno scritto una lettera congiunta per proporre quattro criteri alternativi a quelli inseriti dal governo per individuare le associazioni datoriali più rappresentative, per eliminare quel pericolo di «equivalenza d’ufficio» con sigle che rappresentano poche teste e firmano tanti contratti, magari al ribasso, usati da pochi. La Confsal ne ha firmati ben duecentoventiquattro, ma coprendo appena mezzo milione di lavoratori, il 3,8 per cento del totale.
Un’operazione del genere, partendo dagli appalti pubblici, potrebbe finire per stravolgere l’intero sistema contrattuale italiano. Il ribasso le imprese lo farebbero semplicemente cambiando il contratto e sarebbe tutto legale.