The end. O no?Donald Trump ha messo la parola fine a una certa idea di America

Una parte degli Stati Uniti guarda con smarrimento a ciò che sta andando in scena, consapevole della propria diversità rispetto al mondo in cui si prepara a vivere. Nei prossimi anni queste persone dovranno ritagliarsi un qualche spazio di sopravvivenza, in un modo o nell’altro

AP/Lapresse

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E dal 25 novembre anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

È soltanto una fantasia, eh. Però immaginate un piccolo parco anonimo, situato in una zona benestante ma tranquilla di Washington, per esempio dalle parti di Dupont Circle. Eccoli là, disseminati tra le aiuole ordinate, i mezzibusti celebrativi dei candidati che hanno perduto le elezioni presidenziali. Un giardino dei battuti. Una galleria di statuette simili a quelle che da noi di dedicano ai generali di brigata o ai poeti minori, tanto per non dimenticarne le facce, effigiate nel marmo con l’espressione speranzosa di quando ancora ci credevano. Ecco il busto di John McCain, l’all-american per antonomasia, ecco l’educato Mitt Romney, il visionario incantatore Al Gore ed ecco Hillary Clinton immortalata con l’aria compresa che aveva a un passo dall’essere incoronata prima regina d’America.

È una passeggiata malinconica che finisce nell’angolo dove gli operai stanno montando l’opera che storicizza l’ultima degli impallinati: Kamala Harris, fugace astro multirazziale, passata da una vicepresidenza incolore agli splendori di una rincorsa che sembrava avere i crismi perché lei potesse sostituire Biden, anche se poi è piombata nell’inconcludenza di una candidatura incapace di trovare gli argomenti utili a conquistare il cuore degli americani. Ma adesso, sempre con la nostra immaginazione, spostiamoci verso il centro di questo parco a tema distopico, fino al piazzale centrale, dove fanno bella mostra di loro le statue dei vincitori e, con dimensioni degne dei Transformer, ci sono i monumenti enormi dei presidenti destinati a entrare davvero nella storia.

Ne hanno appena eretto uno gigantesco, scolpito per celebrare l’ultimo arrivato in questo Pantheon americano: somiglia a un vecchio rockabilly di provincia avvoltolato in un completo blu, con una silhouette da intrattenitore che appartiene invece a colui che, contro la maggioranza dei pronostici e soprattutto contraddicendo gli auspici mediatici, è diventato un eroe nazionale. È Donald Trump, il campione di cui il Paese ha sentito nuovamente il bisogno, al punto da richiamarlo a capo della Casa Bianca, dopo che c’era già passato, aveva combinato discreti disastri (in particolare quando si era trovato alle prese con una pandemia che l’aveva mandato in confusione e poi quando aveva dato retta agli amici complottisti sul tema dell’emergenza climatica, per lui così incomprensibile) e perciò, alla fine del primo mandato, era stato castigato con una sconfitta inflittagli da un avversario battibilissimo, il vetusto Joe Biden, uno che gli americani hanno rispettato, ma non hanno mai amato fino in fondo.

E però Donald aveva sentito il richiamo, l’urgenza (o forse il bisogno, per arginare i guai giudiziari che lo stavano travolgendo) di riprovarci, di rimettersi in corsa per governare il Paese, gridando ai quattro venti d’essere l’unico a conoscere la formula della felicità dei connazionali e d’essere pronto ad applicarla, una specie di “liberi tutti” basato sul principio di contrapposizione tra inclusione ed esclusione, con un esplicita divisione degli schieramenti tra gli aventi diritto (i veri americani) e l’ultima versione dei Miserabili: i clandestini, i reietti d’America, quelli che ne macchiano il sangue, quelli che adesso è ora di mandare a casa o a cui è ora di impedire l’accesso, altro che accoglienza, altro che tolleranza.

È così che l’uomo dal ciuffo che sfida le leggi della gravità è diventato un monumento, e questa adesso è realtà non fiction, l’abbiamo appena vissuta, e con sconcerto abbiamo ascoltato (pur prestando loro sempre poca fede) quelle proiezioni espresse dai sondaggi (già, una civiltà che accetta di farsi vivisezionare e rappresentare da sondaggi improbabili: argomento su cui sarebbe opportuno riflettere) che rilanciavano l’immagine di una corsa aperta, addirittura “all’ultimo respiro”, mentre quelli che il Paese lo avevano esplorato più in profondità, andando a guardare oltre le metropoli, dove vive l’America che diventa orizzontale e non verticale, vedevano con i propri occhi che la proposta del reverendo Trump era ricevuta come un discorso della montagna o, magari, come il sermone da spogliatoio di un allenatore di football: fuori l’orgoglio ragazzi, torniamo a essere ciò che eravamo, prima che il Paese cedesse alle suppliche di chi ci invidia e ci accerchia, ritroviamo lo spirito originale, quello della libera impresa, della scommessa sulle proprie intuizioni, quello che insegue i sogni e progetta in grande, quello che mette il proprio slancio individuale davanti a tutto, coltiva solo la rete delle relazioni utili e conta su un’organizzazione sociale ridotta all’osso, non appesantita dai doveri adesso addossati ai più fortunati – un posto dove le regole sono poche ed elastiche se si tratta di perseguire profitti e diventano invece imperative se si tratta di irreggimentare gli ultimi o di lisciare il pelo al potere.

Dopo l’elezione di Trump al secondo mandato, si va configurando il ridisegno dello spirito americano per i prossimi quattro anni e oltre, se davvero è ipotizzabile un futuro di passaggio di consegne al suo giovane e volitivo scudiero J. D. Vance: parola “fine” all’America degli scrupoli, quelli morali del politicamente corretto che si stavano facendo largo nella matrice della classe media; stop a qualsiasi vocazione assistenzialistica su base globale, a meno che non comporti tangibili vantaggi e godibili iniezioni di prestigio; de-regulation, de-regulation, de-regulation; ripensamento della struttura statale, quanto più possibile modellata sul disegno d’impresa, anziché come congegno di manutenzione della collettività. E soprattutto – con Trump di nuovo al comando, libero di promulgare e gorgheggiare a proprio piacimento, circondato dal coro vigilante ma plaudente del Congresso – finalmente una rinnovata legittimazione per l’icona essenziale: il maschio americano bianco, alla perenne ricerca del trionfo della propria volontà, con variazioni incluse, nella fattispecie per coloro che hanno la pelle di altri colori, ma che a quel modello vogliono aderire, e a quella visione del mondo sentono di appartenere.

Trump ha vinto anche con i loro voti, quelli degli afroamericani e dei latini che non si sono fatti convincere dalla rabberciata proposta di Kamala Harris, mentre ciò di cui erano in cerca era la legittimazione, il diritto conclamato di aspirare allo stesso modello incarnato proprio dal tycoon, ovvero rifare l’America grande di nuovo, loro compresi, chi è dentro è dentro e chi è fuori lasci ogni speranza. Perché è questa ribollente cascata di testosterone l’ingrediente dominante dell’ultima tornata elettorale, un’orgasmatica manifestazione liberatoria, scrollandosi di dosso l’accumulo di doveri e di limitazioni che stavano modificando i lineamenti nazionali, al punto da renderli irriconoscibili.

Quella che esce dalle urne elettorali è un’America di Dorian Gray, che pretende d’assomigliare a (o perlomeno di scimmiottare) una sua versione originale che in verità non è mai esistita, se non nell’evocazione hollywoodiana, puntando delle forti luci sul bello e nascondendo negli angoli bui il brutto, nonché i peccati che l’hanno generato. Lo chiamano populismo: è in evidente odore di qualunquismo e sembra disseminato di razzismo, di classismo, di sessismo, ma è soprattutto il devastante risultato dell’educazione che ha scelto di darsi la maggioranza del Paese.

Resta ovviamente un’altra vasta America che guarda con smarrimento a ciò che sta andando in scena, consapevole della propria diversità rispetto al mondo che si prepara a descrivere se stesso all’avvento della presidenza Trump e dentro al quale, comunque, dovrà ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza. Un’America che prova a difendere gli argomenti, la necessità, l’urgenza di correzioni di rotta in tanti settori diversi che includono i comportamenti, le priorità, il pubblico e il privato, gli affari e la formazione. Per costoro gli anni a venire saranno quelli del “nonostante” e dovranno imparare a dar forma ai propri intendimenti muovendosi in una rappresentazione estranea, a cui però appartengono ancora.

Ritrovarsi a essere progressisti americani all’imbocco della seconda volta di Trump: dev’essere una sensazione straniante, una bolla esistenziale che costringe a cercare punti di riferimento, rifugi e possibili futuri approdi. Un’America lontana da come ce la siamo a lungo immaginata, piuttosto rotolata, come scriveva Lucio Dalla, «dall’altra parte della luna».

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E dal 25 novembre anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

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