Il giorno successivo alla riapertura di Notre-Dame, tra le guglie restaurate della più nota cattedrale del mondo, i giornali italiani hanno scelto di ritrovare speranza nel tanto bramato (da loro) negoziato tra Ucraina e Russia. Tra le foto e le dichiarazioni di Emmanuel Macron, Volodymyr Zelensky e Donald Trump si cercavano segnali, come l’abbinamento della cravatta gialla e del vestito blu di Trump. Dopo essere stato accolto ai massimi livelli a Parigi, Trump ha fornito la sua versione dell’incontro con Zelensky, dichiarando che l’Ucraina vorrebbe raggiungere un accordo dopo «aver perso quattrocentomila militari e molti più civili».
Zelensky, tuttavia, non sembra aver gradito questa versione e domenica mattina ha detto alla stampa ucraina che le perdite ufficiali dell’esercito ammontano a quarantatremila militari, caduti nel tentativo di respingere il nemico dai territori ucraini. Come disse Mario Draghi con il suo consueto pragmatismo nel 2021: «Con questi dittatori, chiamiamoli con il loro nome, di cui si ha bisogno per collaborare, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e deve essere pronto a cooperare per gli interessi del proprio Paese». Zelensky sa bene che con i potenziali autocrati, anche se eletti legittimamente come Trump, occorre collaborare, consapevole che senza l’aiuto americano l’Ucraina incontrerebbe serie difficoltà nel tenere il fronte e proteggere i civili dagli attacchi russi.
Sin dal giorno dei risultati delle elezioni presidenziali americane, Kyjiv ha mostrato la sua disponibilità a costruire un rapporto con la prossima Amministrazione di Washington, compiendo passi concreti. Nei primi giorni di dicembre, mentre a Bruxelles si riunivano i ministri degli esteri della Nato, una delegazione ucraina guidata dal capo dell’Ufficio del Presidente, Andriy Yermak, è andata negli Stati Uniti per incontrare i rappresentanti della futura Amministrazione Trump. Al suo ritorno, Yermak ha detto che la retorica dei trumpiani sull’Ucraina è notevolmente cambiata rispetto a quella della campagna elettorale, in particolare quella del vicepresidente eletto J.D. Vance. Yermak ha avuto incontri con figure chiave del mondo Trump, come Michael Waltz, scelto come Consigliere per la sicurezza nazionale, e l’ex generale Keith Kellogg, nominato da Trump inviato speciale per Russia e Ucraina.
L’Ucraina intende arrivare al giorno dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca con un piano di cooperazione chiaro. Per questo motivo, oltre alla missione di Yermak negli Stati Uniti, Zelensky è volato a Parigi per incontrare Trump, l’uomo da cui dipendono non solo le sorti dell’Ucraina, ma anche l’intera architettura della sicurezza globale. Secondo i media ucraini, Zelensky è rimasto soddisfatto dall’incontro, parlando di «pace giusta» e di un dialogo che proseguirà nella ricerca di soluzioni.
Trump, convinto da Macron a incontrare Zelensky e fotografato con lui ancor prima del suo insediamento, ha invece rilasciato le solite dichiarazioni caotiche, sbagliando numeri e affermando di «conoscere Vladimir». Resta da chiedersi se, oltre ai numeri, non abbia confuso anche Vladimir con Volodymyr.
L’America può influenzare le decisioni dell’Ucraina, minacciando di ridurre il sostegno, ma ha sempre meno capacità di influenzare le scelte della Russia.
La notte successiva alla sontuosa cerimonia di riapertura di Notre-Dame restaurata, un evento imprevisto (sebbene anticipato dagli sviluppi recenti) potrebbe sconvolgere gli equilibri politici del prossimo futuro: la caduta del regime di Assad, sostenuto dall’esercito russo, responsabile di alcuni dei peggiori crimini di guerra contro i civili siriani. La resistenza siriana offre una speranza — quella autentica, da cercare tra le guglie restaurate — che tutte le scommesse russe per imporre il proprio dominio possano prendere il volo (da Damasco, Minsk, Simferopoli, Donetsk e Tbilisi) e sparire dai radar.