In primo pianoIl cinema di Lulu Wang ci ricorda l’importanza del cibo

Sia nel lungometraggio “The Farewell – Una bugia buona” del 2019 che nella recente serie televisiva “Expats” la regista e sceneggiatrice ha posto molti momenti di cucina e nutrimento al centro della narrazione, lasciandocene cogliere la rilevanza nelle dinamiche sociali, famigliari e affettive

Lulu Wang
Lulu Wang, photo by Andy Kropa/Invision/AP @Associated Press/LaPresse

Quand’è l’ultima volta che si sono viste scene di cibo belle al dente sul grande e piccolo schermo? Tra 2023 e 2024 la scena è stata rubata da “Il gusto delle cose” di Trần Anh Hùng, sontuoso affresco di tavola e cucina con una Juliette Binoche sempre a puntino. Su Instagram non si faticano a trovare account-tributo che spulciano alla ricerca di questa o quella scena da acquolina (e uno dei migliori è @cinefoodies di Niccolò Sandroni), ed è difficile togliersi dagli occhi le sequenze di “Eat Drink Man Woman” di Ang Lee (1994), film in cui il titolo, detto cinese che riassume il senso della vita, comunica tutto.

La lista potrebbe continuare, ma meglio arrivare all’anno scorso e all’uscita di “Expats”, miniserie di Lulu Wang da lei creata e diretta per Prime Video. A dirla tutta, non era la prima volta che Wang, regista sino-americana, si era fatta notare per il rapporto strettissimo tra il cibo e le sue storie.

La scena è questa: una lazy Susan, piatto ruotante automatico da appoggiare sul piano di un tavolo per far girare le portate davanti ai commensali, molto lentamente, trasborda piatti da una parte all’altra, da una faccia all’altra. Sopra questo movimento si snodano discorsi di famiglia, matrimoni, aspettative che vengono calate dall’alto su Billi (interpretata dalla rapper Awkwafina), giovane aspirante scrittrice sino-americana. Ci troviamo a Changchun, in Cina, dove la famiglia di Billi si è, ufficialmente, riunita per il matrimonio del cugino della ragazza. In realtà si tratta di un diversivo: la nonna di Billi è gravemente malata, e i suoi cari vogliono vederla un’ultima volta senza dirle direttamente i risultati dell’esame che ha rivelato il suo destino.

La scena arriva dalla vita quasi reale contenuta in “The Farewell – Una bugia buona” (2019), secondo lungometraggio di Wang. L’apocalissi verbale messa in scena sopra il pasto condiviso non è l’unica, nel film. Anzi: i personaggi sono sempre a mangiare, spesso e volentieri in gruppo. Il momento del pasto è presentato come quello del confronto, tra critiche, speranze, ricordi del passato e, ça va sans dire, tanta, tantissima acquolina.

Tutto si fa, davanti al cibo, tranne che mangiare, o meglio, tranne che mangiare e basta. Così succede nel momento di cui sopra, quando il passaggio dei piatti tanto davanti agli occhi dello spettatore, quanto a quelli dei personaggi, dà il via alla giostra, e tra conversazioni che si impilano una sopra sull’altra trasforma l’occasione in un ritrovo senza quartiere, dove le lingue si sciolgono, giudizi sono lanciati, e segreti rischiano di essere rivelati.

Se non sembriamo molto lontani dal pranzo di Natale in una qualsiasi casa italiana, è perché il rapporto con il cibo dei cinesi e degli italiani non è poi tanto diverso. Per convincersi delle somiglianze basta sfogliare le pagine di “Invitation to a Banquet”, bibbia (per mole del tomo) di Fuchsia Dunlop (prima occidentale a essersi formata come chef presso il Sichuan Higher Institute of Cuisine, in Cina) sulla cucina cinese, la sua storia e le sue ramificazioni sociali.

Nel capitolo “Food and the Heart” (“Il cibo e il cuore”), si legge: «Come tante persone cinesi, specie se delle generazioni più anziane, lei (la “zia” adottiva di Dunlop in Cina, nda) non mostrava il suo affetto per me abbracciandomi o incoraggiandomi a esprimere le mie emozioni, ma con il cibo e il preoccuparsi per me». Continua: «Dapprima, i suoi modi mi sembravano bruschi e da comandina: “Mangia un po’ di congee!” (porridge di riso, nda), “Bevi un po’ di zuppa!”, “Vestiti di più!”».

Stesso atteggiamento che si osserva in un’altra scena di “The Farewell”, dove Billi e la madre (interpretata da Diana Lin) hanno una discussione sullo stile di vita della ragazza, che la madre giudica troppo dispendioso e senza una direzione precisa in fatto di carriera. La conversazione avviene mentre la madre taglia qualcosa sul tagliere e si chiude su una conta di wonton: «Quanti ne vuoi?», chiede questa alla figlia. «Cinque?», risponde Billi. La madre ci riflette: «Ma sono pochi». Risposta: «Fanne una dozzina». E ancora: «Dieci vanno bene». Prendine di più ma non troppi. Ti voglio bene nonostante le nostre visioni siano diverse, e a te penso io. Qui succede al contrario: maschero, per non dire. Trovo un modo alternativo di comunicare quanto non mi riesce con le parole.

«In “The Farewell”, quello che ho voluto fare con il cibo è esplorarlo come mezzo per creare tensione. Funziona perché è anche un’espressione d’amore. Per la nonna, che pensa che tutti siano arrivati da lei per una festa, esprimere amore significa dare più cibo. E la tua forma d’amore dev’essere mangiarlo, e pure tanto». Così Wang ha parlato del suo rapporto con il cibo dentro e fuori dallo schermo in un’intervista a GQ Usa. Invece, al Los Angeles Times: in Cina «tutti amano il cibo. Non è che ne ho messo così tanto nel film, e spesso a distanza ravvicinata, per una cosa di bellezza». E alla domanda, perché era importante far svolgere alcune scene in cucina o seduti al tavolo del pasto, ha risposto così: «Perché è la realtà. Sono quelli i momenti in cui la famiglia si riunisce. […] La giornata si sviluppa attorno ai pasti».

Lulu Wang Expats cast
Il cast di “Expats”, da sinistra Jack Huston, Brian Tee, Nicole Kidman, la regista Lulu Wang e Sarayu Blue, foto di Evan Agostini/Invision/AP @Associated Press/LaPresse

Lo stesso si potrebbe dire di “Expats”, che tra gli interpreti vanta Nicole Kidman. Le vicende sono quelle di un gruppo di famiglie emigrate a Hong Kong, ognuna con in valigia i propri piccoli inferni personali. I conflitti sono tutti interni: non la sfida lavorativa che mette in crisi un rapporto, per esempio, ma le dinamiche interpersonali tra chi sta “nel nido” e che, per antonomasia, condivide la stessa tavola.

Proprio perché mangiare, preparare il cibo, e riunirsi attorno a esso è parte di una realistica vita quotidiana (e forse perché la realistica vita quotidiana è afferrata meglio dalla comunità delle donne che da quella degli uomini), nei sei episodi di “Expats” il cibo entra quasi di prepotenza, quasi a ricordarci la sua presenza. A differenza che in “The Farewell”, però, attiva anche una riflessione sulla differenza di classe. Le tate filippine che badano ai figli dei ricchi occidentali studiano i menu e fanno la spesa al mercato, solo per finire a ritrovarsi ai tavoli di un fast food. In mezzo a una settimana di pasti bilanciati e oculati, lo sgarro arriva con il “giorno della pizza”. Un dolce indiano offerto da una madre in visita (leggasi: che costringe a mangiarlo) può attivare conflitti sepolti.

Ancora una volta il cibo diventa routine, ed elemento ritmico della narrazione: anche qui, quando qualcosa cambia nelle abitudini alimentari, per i personaggi è un brutto segno. Il rito della pizza assumerà un significato diverso, ma qui niente spoiler, e una gravidanza porterà voglie improvvise di alimenti fino a quel momento non considerati (e anche qui non diciamo di più). Dei cupcake red velvet prima simbolo di un amore verranno ignorati, descrivendo la crisi della coppia meglio di una manciata di parole. E il cibo cucinato da una madre per prendersi cura del figlio verrà trangugiato poco, e velocemente, per prendere parte ai movimenti di piazza degli ombrelli gialli (osteggiati dalla madre in quanto pericolosi per il futuro del figlio).

«Quando una persona riceve una cattiva notizia, smette di mangiare. Smettono di dormire. Certo, si può dire che muoiano di paura in un modo astratto, ma possiamo anche dire che muoiano in un modo pratico», continua Wang a GQ. O, tradotto, che lascino andare, ed è per questo che il rifiuto di qualcosa da mangiare suona così spaventoso. È tutto a posto dentro quella persona? È tutto a posto nel rapporto che abbiamo con quella persona? Per questo motivo, in “The Farewell” il cibo viene usato come mascheramento: continuiamo a parlare di cibo per non affrontare l’elefante nella stanza.

“Expats”, invece, ci propone una lettura diversa, come diversa è la società in cui si inserisce, di fatto occidentale di stampo americano anche se trapiantata. Infatti, tutte le volte che i personaggi si siedono di fronte a un pasto sono obbligati a togliersi la maschera, che sia riconoscendo il proprio dolore, riportare a galla i ricordi di una famiglia disfunzionale, o intavolare discorsi su quanto manchino persone lontane.

La funzione detonante del cibo è particolarmente evidente durante i momenti al ristorante, che guidano al massimo la tensione tra i personaggi attraverso il contrasto tra la situazione apparentemente piacevole e un non detto che si gonfia fino a esplodere. Ed è al ristorante che, ancora una volta, si verifica l’evento-madre della narrazione – ma ancora una volta, tacere per non rovinare la visione.

Il cibo, insomma, nei lavori di Lulu Wang non è mai stato, per ora, la storia in sé, ma risulta impossibile immaginare una storia by Lulu Wang senza l’intervento massiccio di piatti, ravioli, e ingredienti vari. Ciò che i personaggi introiettano ne mostra le fragilità, le piccole nevrosi, gli stati d’animo che non si possono celare. A pensarci, potrebbe essere un ottimo standard per il metodo investigativo di un detective privato, portare a cena il sospettato. O anche solo: diffidate di chi non permette al cibo di entrare nelle proprie narrazioni, sullo schermo ma anche fuori.

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