Ci sono quelli che azzeccano una sola canzone, o un solo libro, o un solo film, e per me, se quella canzone o quel libro o quel film mi sono piaciuti molto, contano quanto chi ha il canzoniere di Guccini o la bibliografia di Philip Roth.
Per le battute funziona quasi allo stesso modo. Certo, preferisco andare a cena con chi sia costantemente brillante, ma puoi aver fatto una battuta riuscitissima una sola volta nella tua vita e quella battuta può essere citabile quanto l’intero repertorio di Oscar Wilde (cito dal Jovanotti dell’altra sera: «Oscar Wilde ha una frase per tutto, tutto e il contrario di tutto»).
La battuta che cito di più quando si parla di smaniosità me la fece una signora che non ho in nessun’altra circostanza sentito avere un guizzo d’intelligenza, eppure questa frase qui sono trent’anni che la cito, e non c’è volta che l’interlocutore non annuisca, comunque la pensasse negli anni Novanta e comunque la pensi ora.
Era dunque una trentina d’anni fa, in Italia c’era stata una cosetta chiamata Tangentopoli. Quand’è iniziata la polarizzazione? Quand’è stato che tutto ha cominciato a essere curve di stadio? Coi guelfi e i ghibellini? Ancora prima? Fatto sta che Tangentopoli divise l’Italia sui giudici e le indagini sui politici come oggi lo è su tutto il resto, dai tappi non staccabili delle bottiglie di plastica ai transessuali: o indispensabile opera di genio che se la metti in dubbio sei fascista, diritto inalienabile che se provi a fare qualche distinzione sei nemico della democrazia, intoccabile pietra angolare della vita civile che guai a te se obietti – oppure l’esatto contrario: male assoluto, madre di tutte le porcherie, complotto, sarcazzo.
E poi questa signora alzò un sopracciglio e disse una battuta che magari aveva orecchiato da altri, ma io l’ho sentita da lei e quindi per me è sua, ed è l’analisi che mi è tornata in mente ieri, quando ho visto il video della Meloni che sventolava un avviso di garanzia come Sangiuliano sventolava i biglietti aerei della Boccia al Tg1.
La battuta di trent’anni fa ipotizzava che Tangentopoli fosse nata perché le mogli dei pubblici ministeri dicevano ai mariti: vanno tutti in televisione tranne te. Adesso che sono passati trent’anni siamo tutti d’accordo, sappiamo tutti che chi fa il magistrato non è per il solo fatto d’aver superato un concorso immune a narcisismo e vanità e esibizionismo, ridiamo tutti delle copertine con immortalati Di Pietro sul trattore o Borrelli a cavallo. Al presente, era più difficile ridere della posizione socialmente presentabile, per quella solita storia che è difficile andare contro al proprio tempo.
La centralità della televisione è venuta meno, sostituita da non so bene cosa – dai meme? – e non so bene cosa le mogli d’oggi possano rinfacciare ai mariti – «tutti diventano meme tranne te»? – ma non sono certo sparite dalla natura umana la vanità o la smania d’apparire. E quindi, mi pare ovvio che mandare un avviso di garanzia a Giorgia Meloni è una mossa di sicuro successo nello stare al centro dell’attenzione. Una mossa quasi altrettanto efficace che mandarne uno a Chiara Ferragni.
E certo, diranno i miei piccoli tifosi della curva antimeloniana, non è che per evitare il sospetto d’esibizionismo uno possa venir meno al suo dovere di perseguire i reati, di far trionfare la giustizia, di – scusate, mi viene da ridere e da sbadigliare nello stesso spasmo.
L’altro giorno Roberto Saviano ha messo su Instagram dei video di lui stesso che andava e tornava dall’udienza in cui era imputato. Sia all’andata sia al ritorno stava zitto, guardava tantintènzo nell’obiettivo e aveva canzoni di Lou Reed in audio (se non ricordo male, “Walk on the wild side” all’andata e “Satellite of love” al ritorno). È Roberto Saviano l’unico imputato più vanesio dei magistrati? Nella distinzione tra difendersi nel processo e difendersi dal processo, è Roberto Saviano l’unico capace di difendersi dalla vanità processuale battendola con una vanità maggiore?
Ieri Giorgia Meloni ha pubblicato dunque questo video in cui rendeva chiaro che la componente derivativa di “M”, quella per cui Benito Mussolini guarda in macchina come trentacinque anni prima faceva Francis Urquhart nell’“House of cards” inglese, non sarà originalissima ma è una maledizione per i politici nell’era di Instagram. Adesso, chiunque si rivolga all’elettorato guardando dentro all’obiettivo appare subito come Luca Marinelli che si volta verso la macchina da presa e dice «La democrazia sopravvive per mia gentile concessione. Per ora».
Giorgia Meloni guardava in macchina e diceva cose irrilevanti – che diamine doveva dire, su. Che lei non è ricattabile (vi ricordate quando pensavamo che quella risposta sulla sua non ricattabilità fosse un pizzino a Berlusconi? Era uno slogan personalissimo e quindi efficace, e non l’abbiamo capito subito, come d’altra parte mai capiamo niente per tempo).
Che il procuratore che le ha mandato l’avviso di garanzia è «lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini». Che lei è «invisa a chi non vuole che l’Italia cambi». A un certo punto allarga le braccia e dice «Allora», e sembra quella Meloni che, a Cecilia Sala che la ringraziava, rispose col tono d’una comare spiccia di modi ma efficiente nei fatti «E ci mancherebbe».
Per il resto, non conta quel che dice, conta solo che forse un piccolo progresso nella percezione dell’elettorato di sinistra dev’esserci stato, perché senza aspettare trent’anni ieri non c’era uno che, alla notizia dell’avviso di garanzia, non sbottasse: vabbè ma allora volete proprio che governi altri trent’anni, allora da Berlusconi non avete imparato niente, allora siete proprio scemi.