A Seoul questa mattina c’era il sole ma faceva molto freddo quando gli agenti sudcoreani dell’anticorruzione si sono presentati alle 8,15 davanti alla residenza presidenziale per arrestare il leader del paese Yoon Suk Yeol. Sospeso dalla carica di presidente poche settimane fa, dopo il fallito tentativo di dichiarare la legge marziale, Yoon è stato colpito da un mandato di cattura e dall’ordine di perquisizione della sua residenza per aver ignorato ripetute convocazioni della magistratura che vuole interrogarlo per un’inchiesta penale.
I funzionari dell’anticorruzione sono riusciti a entrare, ma non sono riusciti a superare il blocco degli uomini della sicurezza a protezione di Yoon, mentre fuori dal palazzo i sostenitori del presidente che ha provato a introdurre la legge marziale hanno iniziato un agitato confronto con la polizia. Il tentativo di cattura è durato quasi tutta la giornata all’interno dell’edificio, ma già poche ore dopo l’inizio dell’operazione (piena notte in Italia), il Center for Military Human Rights Korea ha diffuso la notizia che forze militari e veicoli blindati presso la residenza del presidente Yoon stavano bloccando l’arresto e ha definito la situazione una “seconda insurrezione”.
Si è conclusa così la nuova puntata di una complessa quanto inedita vicenda che ha coinvolto la Corea del Sud a partire dal 3 dicembre scorso. Il paese è sempre stata una solida democrazia di stampo occidentale e in caso di arresto secondo la legge si aprono scenari del tutto sconosciuti. È infatti la prima volta che un presidente coreano in carica è incarcerato ed è stato un colpo lo stesso impeachment votato dal parlamento per tentata insurrezione, qualcosa a cui Seoul non è abituata. Nel rispetto della legge a questo punto la stessa agenzia anti-corruzione dovrà agire in tempi strettissimi, avrà 48 ore per indagare su di lui e decidere se richiedere un mandato di arresto formale o rilasciarlo.
Per la controversa dichiarazione della legge marziale sono già stati arrestati il ministro della Difesa di Yoon, il capo della polizia e i vertici militari, tutti coinvolti nel breve ma ben coordinato tentativo di instaurare una legge liberticida, una situazione molto grave dal punto di vista istituzionale, ma che ha anche acceso gli animi di ampie parti della popolazione. Yoon è un ultraconservatore il cui mandato è stato segnato da scandali e affarismo. L’insurrezione è uno dei pochi crimini per cui i presidenti sudcoreani non godono di immunità, e possono finire all’ergastolo o essere condannati a morte.
Ma i suoi sostenitori sono particolarmente devoti e nei giorni scorsi hanno dato vita a una notevole organizzazione accompagnando il loro appoggio con fanatismo religioso. In Corea la fede cristiana ha svariati punti in comune con le dottrine evangeliche americane, e come in America, anche qui vi sono politici populisti che assumono toni messianici. Di fatto questi gruppi sventolano insieme la bandiera coreana e quella degli Stati Uniti, auspicando che «Trump possa prendere in fretta il comando per aiutare il valoroso popolo coreano».
Le forze dell’ordine, comunque, non hanno creduto che i presidi davanti alla residenza fossero stati installati soltanto per distribuire il tè caldo. Tanto che nei giorni scorsi sono stati mobilitati circa 2800 agenti per evitare i disordini.
Consapevole del carisma che esercita sui suoi elettori, Yoon da giorni lancia messaggi eroici: «Sto seguendo in diretta su You Tube il gran lavoro che state facendo e vi garantisco he combatterò fino alla fine». E accusa l’opposizione di strizzare l’occhio alla Corea del Nord.