Il Golden Globe a Demi Moore per “The Substance” è così sorprendente che da una settimana, di qualunque tema si parli e di cui abbia senso scrivere, io dico ai miei interlocutori sì, magari la settimana prossima ne scrivo, non martedì perché martedì ci sarà da commentare il primo di due mesi di premi a Demi Moore che finalmente-mi-prendono-sul-serio-come-attrice.
La scelta di Demi Moore come protagonista di quella puttanata di “The Substance”, un film sulla paura delle donne di non essere abbastanza belle o abbastanza giovani o abbastanza sarcazzo, la scelta come protagonista di una la cui intera carriera cinematografica è stata punteggiata dai «Che fisico» che abbiamo sospirato davanti ai bikini di “Striptease”, ai muscoli di “Soldato Jane”, alla quarantennitudine più in forma delle ventenni di “Charlie’s Angels”, la scelta di Demi Moore per fare una per cui il fisico è l’intero patrimonio è così sorprendente che due anni fa mi chiesero un articolo sui suoi sessant’anni, e l’unico taglio che mi venne in mente fu che il corpo di Demi Moore era un argomento molto prima che i corpi fossero l’unico argomento.
La vittoria di “The Substance” come miglior sceneggiatura a Cannes, la vittoria d’un film che fa la moralina all’ossessione per la bellezza (e per sovrappiù: scritto e diretto da una donna) era stata così sorprendente che l’aveva prevista Nanni Moretti già al festival di Venezia del 1989, in quella conferenza stampa in cui aveva detto «Col tema importante si vince sempre: ricattando il pubblico».
Il discorso di ringraziamento di Demi Moore, che poverina le avevano detto che era un’attrice da incassi e non da premi, è un discorso così sorprendente che l’anno scorso aveva praticamente costituito l’intero filo conduttore di “Brats”, documentario in cui si racconta quella generazione di attori – tutti maschi tranne Demi Moore e Molly Ringwald – che negli anni Ottanta facevano i film per adolescenti (prima che i film per adolescenti cominciassero a essere visti innanzitutto dagli adulti, quando le sedicenni ascoltavano “Albachiara” pensando «Sono proprio io», ignare che sarebbero un giorno state sessantenni che continuavano a pensare «Sono proprio io» della canzone su una sedicenne).
Hollywood aveva finalmente inventato la giovinezza, dicono in “Brats”, che è un documentario che – come tutto in questo secolo – ha nostalgia ma non ha memoria, e per il quale evidentemente non sono mai esistiti James Dean o Brigitte Bardot. (Poi a un certo punto arriva Rob Lowe e mette a fuoco meglio: ora ogni kolossal estivo è per diciottenni, e noi c’eravamo quando questa cosa è cominciata, il che non è necessariamente un bene).
In “Brats” sospirano soddisfatti che il dvd di “The breakfast club” sia uscito nella Criterion Collection, la collana dei grandi classici. Come se la legittimità culturale non fosse stata rimpiazzata dalla nostalgia di qualunque cosa, e non fosse la sospirosità dei sessantenni perpetuamente adolescenti a fare di quei filmetti dei classici.
Adesso abbiamo imparato, e non aspettiamo più la rivalutazione postuma, e di “The Substance” abbiamo cominciato a tacere che fosse una puttanata da subito, perché poi non vogliamo ritrovarci a dire che Demi Moore avremmo dovuto prenderla più sul serio, facciamolo adesso, mettiamo in scena un successo sicuro che faccia sperare le vegliarde di tutto il mondo: sì, persino nelle vite delle attrici gnocche esiste il secondo atto, e allora io valgo, e allora sono proprio io.
“The Substance” è così brutto, così ridicolo, così patetico, così ricattatorio, così compitino, così piccolo moralista, che quando l’ho visto neppure m’è venuta voglia di scrivere qualcosa per dire quanto fosse imbarazzante. È un film così sbagliato che è giusto per questo tempo sbagliato. (Il mio giudizio su “The Substance” è così sorprendente che prima di me l’hanno visto diverse amiche, e tutte me l’hanno anticipato con qualche variazione su «Tu se lo vedi t’incazzi»).
Se il fattore d’attrazione che una puttanata come “The Substance” esercita presso il ceto medio complessato in questo secolo sbandato non l’avessi capito già guardando il film, l’avrei per forza capito vedendo uno degli incontri tra candidati che alimentano gli audiovisivi delle testate giornalistiche di settore nella stagione dei premi cinematografici; quell’incontro in cui le attrici squittiscono a Demi Moore ammirazione per una specifica scena in cui si ritrovano tutte tantissimo, in cui sono-proprio-io.
È la scena più ridicola del film. È la scena in cui Demi Moore deve uscire con un suo ex compagno di scuola. L’ha incontrato per caso, lui si è sdilinquito e le ha dato incredulo il suo numero perché, ehi, lui è rimasto uno qualunque e lei invece è diventata quella che va in tv a fare l’aerobica. C’è lo squilibrio di forze dovuto al fatto che lui è uno normalissimo e lei invece ha l’aspetto di Demi Moore; ma c’è anche, sebbene il film decida di ignorarla, la voragine tra i due dovuta al suo essere un nessuno e lei una famosa (“The Substance” finge che la fama non sia una valuta assai più preziosa della bellezza perché non sta raccontando una storia: sta portando avanti una tesi).
La scena dovrebbe essere ricca di pathos, c’è lei che continua a tornare davanti allo specchio e a cambiare qualcosa, a strofinarsi via il trucco, a trovare ridicola la scollatura, a coprirsi, a sentirsi inadeguata, e alla fine non va proprio all’appuntamento. È una scena credibilissima, se hai sedici anni e sei sola nella stanza e tutto il mondo fuori. Se ne hai sessanta e sei una star sebbene in declino, e stai per uscire con uno sfigato, ecco, non tantissimo.
E invece al tavolo dell’incontro organizzato dall’Hollywood Reporter sono tutte smaniosissime di dire che quella scena parla di loro, che sono proprio loro. Zendaya che ha ventott’anni e ancora ancora posso credere che si guardi allo specchio cento volte, ma pure Tilda Swinton che ne ha sessantaquattro e ha un senso così preciso della propria immagine che lo specchio potrebbe anche non avercelo, Tilda Swinton che è in giacca di jeans con tutte le altre vestite da sera, Tilda Swinton alla quale quella scena è evidentemente persino più aliena che a me, eppure sente di dover simulare la posa più amata dalle commesse su Instagram, quella dell’empatia, quella in cui devi dire qualcosa che somigli a: sono proprio io.
Certo che sono attrici e che il loro aspetto è il loro patrimonio, così come il personaggio di “The Substance” è una che è stata in tv tutta la vita, ma proprio per quello sanno tutto della loro faccia: conoscono il loro profilo migliore, i colori donanti, non vanno da un parrucchiere a caso che sbaglia il taglio come noialtre mortali. Se quella scena davanti allo specchio aveva una chance d’essere credibile, poteva esserlo con la Demi Moore ventiduenne di “Brats”, col faccione tondo e nessun uso di mondo, mica con quella che è stata nuda in pubblico per decenni (pure da incinta, prima di tutte) e costantemente splendida.
In quell’incontro tra candidate, Demi Moore dice che era importantissimo il messaggio di “The Substance”, che non scambierebbe la sé âgée ma saggia con la lei dalle carni più sode del passato, che i fallimenti vanno visti come opportunità, che la figlia le ha detto che vuole smettere di pensare a quel che non è e concentrarsi su quel che è, che quel che facciamo non è quel che siamo, che la verità è un regalo (la conversazione collettiva contemporanea è un prontuario di frasette motivazionali, dev’essere successo quando abbiamo nelle letture giovanili sostituito Flaubert con “Donne che amano troppo”).
Lo dice poco dopo che – lo sappiamo perché naturalmente The Hollywood Reporter ha instagrammato il backstage, giacché niente piace al pubblico contemporaneo quanto illudersi di vedere ciò che non dovrebbe – un assistente le ha passato dell’olio sulle braccia acciocché esse fossero più telegeniche, acciocché sembrasse coetanea di Zendaya, acciocché la signora Moore potesse riferire l’importante messaggio che essere sode non è tutto ma lo scandisse essendo sodissima.
Qualche anno fa, nella migliore analisi involontaria di questo secolo che abbia sentito, Penn Jillette paragonava quei due colossali relitti del Novecento che sono Bob Dylan e Bruce Springsteen: un anomalo, e una cheerleader. Ai concerti di Springsteen, diceva, tutti sono Springsteen: a tutti piacciono le ragazze e le macchine e tutti hanno problemi economici. Dylan ti dice «io parlo per me», Dylan non esercita mai il ruolo della cheerleader, non dà mai l’impressione d’aver pensato d’una sua canzone o d’una sua scelta da palcoscenico «questa li fa impazzire».
Lo dico ascoltando Dylan un milionesimo di Springsteen, lo dico essendo andata a cento concerti di Bruce e nessuno di Bob: ci vorrebbero più Dylan. E invece abbiamo “The Substance”, che pensa tutto il tempo «questo le fa impazzire», e la tragedia è che ha ragione, la tragedia niente affatto sorprendente è che noialtre sceme di questo secolo lo guardiamo e pensiamo: sono proprio io.