La Cina, e noiChe cosa ci insegna il caso DeepSeek sull’Italia e sull’Europa

Ognuno può farsi l’idea che crede riguardo a quale sia il giusto livello di tutela della riservatezza dei dati personali, ma Roma sembra essere più esigente degli altri. Mentre Bruxelles sembra immobile di fronte alle opportunità che l’IA promette. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni

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Il Garante italiano per la privacy ha intimato a DeepSeek, il concorrente cinese alle intelligenze artificiali occidentali come ChatGpt, di sospendere i suoi servizi in Italia. L’azienda ha risposto di non essere attiva nel nostro né in altri Stati membri dell’Ue, e quindi di non sentirsi vincolata dal diritto unionale. L’Autorità per la protezione dei dati personali ha dunque avviato un’istruttoria. Al momento, DeepSeek non è più disponibile sui principali app store (come Apple e Android) ma è liberamente accessibile dal web.

I rilievi del Garante riguardano le modalità di raccolta e trattamento dei dati personali degli utenti italiani e la loro conservazione su server in Cina. Almeno negli esiti, il caso è simile a quello del 2023 contro ChatGpt, che fu a sua volta bloccato. Per tornare online, dovette introdurre alcune modifiche, tra cui la pubblicazione di maggiori informazioni sul trattamento dei dati e un modulo per consentire agli utenti di esercitare il diritto di opposizione, appunto, al trattamento dei dati.

Ciascuno può farsi l’idea che crede riguardo a quale sia il giusto livello di tutela della riservatezza dei dati personali e se le attuali normative siano adeguate o sproporzionate. Ci sono però due anomalie che vanno sottolineate e che dicono molto sull’Italia e sull’Europa. Il Garante italiano non fu l’unico a muovere dei rilievi a ChatGpt, ma fu l’unico a bloccarlo. Allo stesso modo, oggi non è l’unico a pretendere chiarimenti da DeepSeek (sembra si siano mosse anche le sue controparti irlandese, britannica, francese e coreana, tra le altre) ma, ancora una volta, l’Italia è l’unico Paese a pretenderne il blocco. Insomma: le regole sono uguali per tutti ma forse noi siamo troppo zelanti nell’applicarle?

L’altra considerazione è più ampia. L’esperienza di DeepSeek – che è ancora tutta da studiare – sembra suggerire che sia possibile raggiungere prestazioni paragonabili a quelle delle intelligenze artificiali più avanzate sostenendo costi e consumi energetici molto inferiori. L’Europa dovrebbe esultare di fronte a questo fatto, perché significherebbe che si può giocare questa partita senza compromettere l’ambiente (evviva!) e che le barriere tecnologiche che credevamo di dover superare forse non sono così ripide (doppio evviva!). Inoltre, anche se non si arriva per primi a sviluppare software simili, pare sia possibile raggiungere i leader contando più sulla creatività e sull’intelligenza che su montagne di denaro pubblico (questo, per l’Europa, più che un evviva è uno sgrunt).

Detto in altri termini: la frontiera della ricerca non è solo sull’hardware ma anche sul software. Ciò dovrebbe indurci a  riflettere criticamente su tutto quello che stiamo facendo e sugli obiettivi stessi delle regole che ci stiamo dando: se le norme impediscono nei fatti di sperimentare e allenare gli llm, allora il gap tra l’Europa e gli altri – di cui tutti apparentemente si lamentano – non è dovuto al destino cinico e baro, né a una pretesa carenza di investimenti pubblici, ma alle nostre stesse  scelte regolatorie.

La questione centrale non è allora la validità della decisione del Garante italiano su DeepSeek – su cui pure, ovviamente, c’è molto da dire – ma il senso della disciplina che negli ultimi anni si è stratificata. E che serve a tutelare gli europei non dagli abusi, ma da qualsiasi novità.

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