Less is moreNo Buy Challenge: rivoluzione anti-consumista o ennesimo trend virale?

Niente shopping, solo ciò che già si possiede. È la sfida che dalla fine del 2024 si è diffusa a macchia d’olio sui social — con TikTok sempre in prima linea — presentandosi come movimento di resistenza in un sistema che ci vuole perennemente in cerca di qualcosa di nuovo

Frame dal video La mia sfida “No Buy” | Come sto risparmiando denaro nel 2025

Di primo impatto può sembrare una lista di buoni propositi, ma a giudicare dai contenuti che scorrono sul social verticale, appare più come un insieme di regole: poche e variabili da persona a persona, ma che di fatto si traducono in un vero e proprio shopping ban a tutti quei beni e servizi non essenziali.

E inevitabilmente, la mannaia cade sui due pilastri del consumismo superfluo: moda e cosmetici. O meglio, fast fashion e fast beauty. Ed è qui che emergono i primi interrogativi. È davvero possibile sottrarsi alla logica dell’acquisto o è solo l’ennesima tendenza destinata a dissolversi nel flusso infinito dell’algoritmo, inghiottita dall’incessante ciclo di nuovi trend? Non solo: ha senso che un movimento anti-consumo nasca proprio su TikTok, piattaforma che più di tutte incentiva lo shopping, epicentro di tutto ciò che è veloce e pensato per offrire una gratificazione immediata?

Per comprendere meglio il fenomeno, è utile ripassare le basi. Nulla nasce dal nulla e la No Buy Challenge affonda le sue radici in concetti già noti, ovvero “Deinfluencing” e “Underconsumption core”. Il primo, opposto all’influencer marketing, invita i consumatori a riflettere sui propri acquisti, distinguendo i prodotti utili, da quelli superflui e sopravvalutati. Il secondo è una filosofia di vita che estremizza il concetto di minimalismo e di riduzione dei consumi, puntando su riuso, riparazione e massima valorizzazione di ciò che già si possiede. Nessuna novità, dunque, ma tendenze che hanno trovato nuova linfa dopo la pandemia e la conseguente inflazione, spingendo la Gen Z a rivedere il proprio rapporto con il consumo, sia da un punto di vista economico che di impatto ambientale.

Fenomeni che all’inizio sono sembrati una boccata d’aria fresca, una reazione al bombardamento costante di video “unboxing” e “haul”, in cui gli influencer spacchettano davanti alle telecamere dei loro smartphone infiniti bottini di acquisti (e di cui ormai si è abbondantemente saturi). Ma come tutti i trend, anche questi ben presto hanno mostrato le loro criticità: è bastato poco, pochissimo, al Deinfluencing, per sfociare in una strategia di marketing mascherata, che invece di tentare di spegnere il consumo eccessivo ha spostato il focus su degli acquisti più “selettivi”, della serie “non comprare X, ma compra Y”, talvolta indirizzando i consumatori verso brand più sostenibili o di nicchia.

L’Underconsumption core, invece, si è spesso rivelata un’estetica di privilegio, perché chi sceglie liberamente di aderire a questo trend parte, comunque, da una posizione di vantaggio rispetto a chi è costretto a ridurre i consumi per necessità. Si pensi a chi è sempre stato abituato a vedersi passare magliette e pantaloni dai fratelli maggiori, non per scelta, ma per un’esigenza economica. Se per alcuni questa tendenza è un’opzione stilistica, per altri è solo la normalità.

Anche la No Buy Challenge, detta anche No Buy 2025, si inserisce in questo contesto con obiettivi apparentemente nobili: il risparmio di denaro e la promozione di abitudini più consapevoli. Evitare di acquistare vestiti e cosmetici per un anno, o anche solo per qualche mese, spinge inevitabilmente a riscoprire i capi già presenti nel proprio armadio e imparare a utilizzare fino in fondo i prodotti di make-up o skincare, prima di acquistarne di nuovi. Ma resistere è difficile, soprattutto quando la tentazione all’acquisto è a portata di click e i pagamenti in negozio avvengono semplicemente sfiorando il telefono sul POS, azioni che rendono l’atto d’acquisto non solo più rapido, ma anche meno percepito e quindi meno “doloroso”.

«You can’t feel it. It seems fake, but it’s not», spiega in un video la youtuber americana @thelifeandnumbers, sottolineando come l’uso della carta di credito renda la transazione meno tangibile. E ancora, fast fashion e fast beauty hanno alimentato l’abitudine di acquistare senza un reale bisogno, spinti ancora di più dalla Dupe culture che rende accessibili versioni economiche dei prodotti più desiderati — come nel recente caso della “Birkin” di Walmart.

Non sorprende, quindi, che la giornalista Halima Jibril, analizzando la No Buy Challenge su Dazed, abbia confessato di sentirsi inspiegabilmente affranta quando rientra a casa dopo una giornata fuori senza aver speso nulla: «Come se l’atto di uscire di casa non fosse più legato al piacere di godersi l’aria fresca o il contatto con la natura, ma all’adempimento del ruolo di “buon consumatore”. Quando non riesco a soddisfare questa aspettativa, mi sento come se avessi fallito tutto». Sembra il riflesso di un’idea radicata, per cui consumare equivale all’essere felici. E in effetti chiunque prova quella scarica di gratificazione istantanea dopo un acquisto. È il piacere di possedere qualcosa di nuovo, talvolta amplificato dalla necessità di usare lo shopping come valvola di sfogo per lo stress di una giornata storta, un mezzo di evasione dalla realtà per ritrovarsi nell’identità costruita attraverso gli acquisti. Ma è una felicità effimera, una scarica di dopamina che svanisce rapidamente, alimentando un circolo vizioso in cui l’unico modo per rivivere quella sensazione è comprare ancora.

Quindi, smettendo di comprare, la felicità ne risentirebbe? Oppure, al contrario, la vera libertà sta nel disimparare questa associazione e trovare altre forme di appagamento, più durature? La No Buy Challenge mette alla prova proprio questo concetto: è possibile dissociare il consumo dalla felicità, sostituendolo con altro? Ma quale sarebbe questo “altro”? Forse, in parte, il valore di ciò che già si ha, liberandosi di quella pressione sociale che impone di acquistare sempre di più per sentirsi adeguati. L’idea che si debba indossare qualcosa di diverso ogni giorno, avere un outfit distinto per ogni occasione, come se chi ci osserva potesse davvero ricordare cosa abbiamo messo l’altro ieri. E anche se fosse, che importanza avrebbe? Tutto questo va a colpire il cuore del sistema moda, che vive di novità costanti, collezioni stagionali di cui si perde il conto (e di cui spesso, si potrebbe fare a meno) e pezzi “must-have” che, nel giro di poco diventano obsoleti per far spazio ad altri trend.

Ma c’è un ulteriore nodo in questa matassa di interrogativi e paradossi. Dove si collocano, in questo contesto, i content creator che basano la loro carriera sulle partnership con i brand? E se il loro pubblico smette di acquistare, i brand saranno ancora disposti a investire su di loro? Quello che già sembra emergere è una mutazione del messaggio: in molti stanno passando dalla No Buy alla Low Buy, una versione più soft della challenge dove l’acquisto non è bandito, ma ridotto e più mirato. Da un lato, questa scelta rende il movimento facilmente accessibile a un pubblico più ampio, poco incline a sfide drastiche e difficilmente sostenibili nel lungo periodo — del resto, concedersi uno sfizio ogni tanto è considerato parte di un equilibrio più realistico.

Dall’altra, lascia spazio alle sponsorizzazioni di cui si nutrono influencer e brand. Il tutto supportato dall’inevitabile capacità di adattamento del digital marketing: proprio come è successo per il Deinfluencing, anche la No Buy Challenge potrebbe essere trasformata in una nuova narrazione commerciale, orientando il consumo in modo più selettivo. Potremmo così ritrovarci sommersi da una ondata di format del tipo “Cosa ho smesso di comprare”, “I miei capi essenziali per un guardaroba minimal”, o persino “Prodotti sostenibili che valgono davvero la pena” (lasciandoci sempre il dubbio su quanto quei prodotti siano davvero a basso impatto). Il tutto, ovviamente, condito da link affiliati e codici sconto.

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