Camillo di Christian RoccaCaso Jayson Blair, l'11 settembre del politicamente corretto

Rischia di essere l’undici settembre del politicamente corretto. La storia ormai è nota anche in Italia. Jayson Blair, 27enne giornalista del New York Times, è stato costretto alle dimissioni perché i suoi articoli erano pieni di errori, falsità, particolari e citazioni inventate o rubate ai colleghi dei giornali locali. Il NY Times si è scusato con i lettori e domenica ha scritto un articolo di due pagine con tutte le accuse e i falsi di Blair. Il direttore, Howell Raines, ha affidato a cinque giornalisti un’inchiesta interna sul lavoro di Blair, e finora sono state trovate 37 falsificazioni negli articoli del giovane cronista d’assalto.
Poco male. Capita. Un grande giornale, come è il New York Times, se inciampa così clamorosamente dimostra di essere il miglior quotidiano del mondo se conduce un’inchiesta interna e denuncia le malefatte del proprio cronista ammalato di scoop. Pensate solo all’Italia. La metà delle colpe di Blair sono uso comune nel giornalismo nostrano, nel quale è normale riportare dichiarazioni d’agenzia senza citare la fonte, copiare interi pezzi da altri giornali, mettere tra virgolette parole di personaggi che non si sono mai visti né sentiti. Inventarsi le storie, far finta di essere andati sul luogo, imbrogliare sui particolari, creare fonti e spacciare per scoop notizie apparse altrove, non è un’esclusiva di Jayson Blair. Il quale, però, era un recidivo, un professionista, un artista della bufala.
Ecco, il punto è questo. Tutti sapevano, e da tempo, che Blair fosse bugiardo e inaffidabile, che si era inventato un cugino morto sotto le Torri e che non s’è mai laureato. I suoi annual rate corrections (sì, i giornali americani hanno un "tasso annuale delle correzioni" per valutare l’affidabilità dei giornalisti) erano di gran lunga peggiori della media. Più di una volta i caporedattori avevano avvertito sia Blair sia il direttore che così non poteva continuare. Eppure il giovane Jayson continuava a essere il pupillo del vicedirirettore Gerald Boyd e di Raines. Nell’aprile del 2002, Jonathan Landman, capo della Metro Section, scrisse una mail a Raines: "We have to stop Jayson from writing for the Times. Right Now". Perché Blair non è stato fermato? Perché è stato addirittura inviato a seguire storie importanti come quella del cecchino di Washington? Perché a Blair è stata data più di una seconda opportunità, quella che ad altri non viene concessa quasi mai?
Ora che Blair è caduto in disgrazia (ma si parla già di contratti miliardari per un suo libro di memorie) sono molti quelli che al New York Times dicono (riportato dal Village Voice) che Blair fosse un "leccaculo", un personaggio così viscido da fidanzarsi con una ragazza polacca del servizio fotografico del quotidiano solo perché cara amica della moglie polacca del direttore (Daily News). Gossip con qualche punta di verità, visto che ieri una portavoce del Times ha comunicato che la ragazza "non lavora più per il giornale" (pare che la ragazza facesse vedere a Blair le fotografie dei luoghi dove lui diceva di essere stato, consentendogli così di riportare i dettagli di cose e persone che non aveva mai visto).
Un semplice caso di nepotismo, dunque? Pare di no. L’editore del Times, Arthur Sulzberger jr., ha detto: "Non cominciamo a demonizzare il direttore. Questa è una cosa che ha fatto Jayson Blair e basta". Eppure pare che non sia così. Ieri Raines ha convocato un’assemblea urgente dei giornalisti; Drudge Report (blog di destra) sostiene che almeno altri due giornalisti sono sul punto di dimettersi; il Post cita un anonimo del Times che parla di "teste che dovranno rotolare"; Michael Kaus (di sinistra) dice che Raines sarà sostituito da Bill Keller.
Howard Kurtz sul Washington Post, Andrew Sullivan (ex opinionista del magazine del Times, poi cacciato da Raines), Seth Mnookin su Newsweek e molti altri commentatori dicono che dietro questo polverone c’è una motivazione razziale e politicamente corretta. Blair è di colore (come il vicedirettore Boyd), è stato assunto con un programma di affirmative action, e il Times lo ha sempre coperto per paura di essere accusato di razzismo. Un giornalista del NY Times citato da Newsweek ha spiegato che la maggioranza della redazione è "orribilmente" bianca: "Così dobbiamo promuovere i pochi giornalisti di colore che abbiamo". A Time, un altro giornalista ha detto che il NY Times qualche volta assume cronisti la cui esperienza è "inferiore a quella solitamente richiesta soltanto perché abbiamo bisogno di qualcuno che appartenga a una minoranza etnica". Lo stesso Raines, alla convention 2001 dell’Associazione dei Black Journalist, ha detto che l’impegno di assumere giornalisti di colore "ha reso migliore la nostra redazione, più importante, più diversa". Più politicamente corretta.

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