Ho riletto di recente quella serie di saggi di Umberto Eco raccolti nel volume “Opera aperta”. Quando lo lessi (la mia copia reca la data 1980) mi sembrò un volume bello dal punto di vista di una iridescente prosa saggistica, illuminante per gli scorci che apriva sulle opere moderne cosiddette “aperte” (ossia fuori dagli schemi tradizionali chiusi aristotelici della struttura e della forma), necessario perché apriva orizzonti estetici del tutto nuovi.
Rileggendolo oggi “Opera aperta” esibisce ancora punti di forza e una sua ragion d’essere. Insomma non è un libro invecchiato. Ma non posso fare a meno di notare, tuttavia, che Umberto Eco ha predicato una cosa e ne ha fatta di lì a poco un’altra: ossia ha scritto un romanzo – “Il nome della rosa” – iperstrutturato, di genere, e avvalentesi di un meccanismo narrativo di risoluzione tradizionalissimo: il giallo. Tutt’altro che un’opera aperta dunque.
Si dirà che questo romanzo e i successivi sono come una sorta di superamento hegeliano, ossia contenente in sé la tesi dell’opera tradizionale, l’antitesi dell’opera aperta e la sintesi del romanzo-romanzo in qualche modo conscio delle regole, ma capace, più che di aggirarle, di dominarle sapientemente da parte di un autore che è un vero e proprio “auctor” oltre che “lector in fabula”.
Nei fatti Umberto Eco ha aperto la strada alla letteratura ludica e combinatoria – che ha avuto un discreto seguito- , ossia a una forma tutta mentale e artificiale dell’invenzione letteraria, una cosa molto divertente ma alla lunga inanimata. Chi può dire qual è esattamente il punto di vista di Umberto Eco sul mondo? Non c’è. Perché Eco non lo possiede intrinsecamente o perché non se ne cura? O perché evitando di esplicitarlo Eco ci vuol dire che il mondo non ha alcun punto privilegiato di osservazione, il che vuol dire che non ha un alcun senso? Potrebbe essere questa una risposta in forma di dubbio dopotutto sensata.
Ma se leggete una pagina di Pirandello capite subito qual è il suo rovello interiore, la sua interrogazione della realtà. Ciò vale anche per tutti gli scrittori ossessionati da domande ricorrenti, anche da schemi fissi se volete. Alcuni critici di scuola psicoanalitica parlano di “metafore ossessive”, cioè di leitmotiv ricorrenti, di domande basiche sempre presenti nella pagina di un autore. Sono queste metafore ossessive che fanno lo “sguardo” di un artista, la sua precisa angolatura di visione del mondo. C’è uno “sguardo” dostoevskiano del mondo, uno tolstojano, uno stendhaliano, uno flaubertiano, uno brancatiano o pavesiano per scendere fino ai piccoli classici.
Ma cosa pensa Umberto Eco della vita e del mondo? Nulla, sembrerebbe. Può darsi che questa sia l’ultima forma assunta dalla letteratura oggi: un intrattenimento colto più che una sofferta e individuale forma di conoscenza.Umberto Eco crea dal nulla mondi narrativi potenti e fantastici, che si reggono da sé nel vuoto di concezioni del mondo centrali o centrate. Ha realizzato una vecchia ossessione di Flaubert: scrivere un romanzo “su niente”, cioè senza attacchi esterni, ma autoreggentesi su belle strutture autosufficienti. Ma ciò mi ricorda una battuta di Paul Valéry quando diceva: “Dio ha creato il mondo dal nulla: ma il nulla si vede”.