Non ho più scritto una opinione politica da tempo, da quando ho dato alle stampe un libro di riepilogo teorico-pratico sul civismo milanese e lombardo, che è stato largamente snobbato come un tema, per alcuni, ormai regolabile dal cosiddetto nuovo marketing elettorale. Quello secondo cui le forme di intercettazione sono più importanti del bisogno diretto di esprimersi e rappresentarsi. A proposito, a Los Angeles ora l’agenzia “Crowds on demand” di Adam Swart affitta intere masse capaci di interagire nelle piazze con politici privi di pubblico a cui non è più sufficiente la piazza virtuale del web. Pensavo e penso che il contenuto valoriale e degli interessi (quelli materiali e quelli simbolici) venga prima del marketing. Ma ho capito negli ultimi anni che pochi avevano davvero voglia di discutere. E quindi ho fatto altro, dedicandomi alla nuova identità competitiva a Milano, limitandomi in Lombardia a compiti istituzionali nel nostro presidio regionale in materia di comunicazioni, mentre su queste colonne ho guardato a cose molto interroganti, come le nuove migrazioni. Ma alcuni fatti recenti, tra cui proprio da ultimo le reazioni alla scomparsa di Ciampi e l’impostazione de-partitizzata della convention di Parisi mi hanno spinto a scrivere una breve e modesta opinione. Che è soltanto una “nota personale”, in questo momento frutto di chi, anche universitariamente, si occupa di dinamiche politiche cercando di interpretare trend più che dichiarazioni del giorno prima. E dunque essa vuole essere solo un segnale circa un dibattito che forse è sopito ma non è morto attorno a noi.
Ecco la mia opinione, scritta ieri (in un ennesimo treno tra Milano e Roma).
Frecciarossa (16 settembre 2016) – Sentire oggi – nel giorno del congedo da un presidente patriota come Carlo Azeglio Ciampi – sbraitare da un luogo simbolico del “nord” contro quei valori, quell’europeismo, quella classe dirigente che si richiama al progressismo laico e democratico italiano, riapre con evidenza il tema appunto della “questione nord”. Nel senso di smettere di continuare ad accreditare l’idea che la “questione nord” si esprima quando vi è chi alza, magari sguaiatamente, la voce credendo di fustigare la Repubblica che si trasforma in “repubblica romana”, tra misfatti, mafie e svendite.
La verità è che il titolare del franchising italiano del lepenismo non rappresenta il nord realmente vincente, che è il vero titolare della “questione nord”. Quello del successo economico-produttivo di lungo corso, mescolato al buon senso del governo locale. Il Fregoli delle t-shirt rappresenta palesemente il partito della paura nel campo della piccola e piccolissima impresa, spesso obsoleta e non più competitiva; e nel campo di interessi clientelari che – nell’agricoltura come nei servizi – fa blocco da anni per coprire condizioni di assistenzialismo territoriale (spesso grazie ai “deprecati” fondi europei).
Il nord vincente è stato un altro
Il nord vincente – perché alla lunga innovativo, competitivo e ben amministrato – è stato costruito nella seconda parte del secolo scorso da democristiani pragmatici che vanno dal piemontese Donat Cattin al lombardo Marcora al veneto Bisaglia. Dalla mediazione storica socialdemocratica milanese. Dal socialismo autonomista che grazie a Craxi ha letto la società degli anni ’80 nel senso delle sue potenzialità e la ha assecondata laddove Berlinguer la voleva chiudere nel cloud ideologico di una classe operaia ormai evaporata. Da pezzi di sindacato con cultura dei contratti coincidente con la post-ideologia. Dalla cultura cooperativa. Naturalmente anche con il traino della società civile dei diritti e delle pari opportunità. E ancora dagli autonomismi valdostani (alla Louvin) o trentini (da Kessler a Rossi).
La violenta crisi del sistema politico intervenuta all’inizio degli anni ’90 ha spazzato via tutto, ivi compreso il monumentale Partito Comunista. E per impedire che i resti di quel monumento – ma con tutta la sua classe dirigente ancora al timone – bancasse un successo allora immeritato, Berlusconi si è inventato – giocoliere del marketing ma privo di classe dirigente adeguata – un incanalamento potente di quel voto. Un voto moderatamente riformatore ma operoso e interessato a vincere anche nel quadro nazionale (dunque legato ad una idea di Italia) che Forza Italia avrebbe potuto rappresentare anche se non è servito più a fare grandi cambiamenti migliorativi , anzi, ma a galleggiare. Fino a riperdere milioni di quei voti, in larga parte incattiviti, verso i grillini.
Aggiornare il polo civico progressista
Da qui la lenta risalita della Lega che sbraitando su argomenti di qualche verità (federalismo fiscale mancato, investimenti improduttivi finiti mafiosamente in territori che inghiottono e non restituiscono, clientelismo degli incarichi pubblici) ha messo alla fine in salvaguardia i voti che la coppia Bossi-Belsito aveva messo in liquidazione. Per Salvini un successo impensabile – va detto – pagato con il prezzo di mettere la Lega però fuori da ogni ipotesi utile per il governo sia dell’Italia che della Lombardia (Maroni infatti percepisce ormai il segretario del “suo “ partito come il pericolo n. 1), ma contando su un nuovo protagonismo mediatico che qualche ebbrezza la dà senza mai far capire quando, tra le lusinghe, ti avvelena.
In questo quadro anche il PD – erede dell’evoluzione post-comunista – si è trovato a crescere politicamente, ma non a vincere nella moderata Lombardia. Ciò che è stato possibile a Milano, grazie ad outsider (lo sono stati tanto Pisapia quanto Sala), non è stato possibile per più di 20 anni in Lombardia. In cui tuttavia due volte altri outsider come Sarfatti e Ambrosoli hanno portato il centrosinistra in condizioni di contendibilità. Ora è il momento di ridare forma e di aggiornare contenuto al polo civico progressista senza il quale anche al prossimo turno elettorale il PD, pur più legittimato nella sua evoluzione di classe dirigente a chiedere il governo della Regione, non avrebbe i numeri – in elezioni senza premio di maggioranza – non solo per farcela, ma neppure per riproporre una contendibilità in epoca in cui, rispetto al 2013, M5S ha raddoppiato consistenza in tutta Italia.
Ed è il momento infatti in cui – non per caso – il rianimatore del centro-destra cambia nel giro di un’estate (anzi di un agosto), l’idea di rianimare i partiti del centro-destra dall’interno e punta invece a creare un polo di società civile – diciamo un civismo moderato che parla di scuola, di migranti e di innovation – in grado di diventare l’ago della bilancia per una coalizione con partiti che Parisi credo in cuor suo giudichi in verità irriformabili e tuttavia con elettorati non estinti che, al richiamo di una continuità di potere assicurata da un rinnovamento comunicativo (che in quanto tale piace a Berlusconi), accetterebbero anche le regole di un modernizzatore (per giunta romano e che dice che la “destra” – come la “sinistra” – sono categorie superate).
Fa bene il PD a suonare la campana della mobilitazione. Ma sarebbe suicidario se l’insieme di ormai tante diversità civiche – spesso eredi della spinta più politico-sociale che partitica del ‘900, ulteriormente aggiornata dai più giovani – che hanno tuttavia volti assai simili e contesti di evoluzione molto vicini – non rispolverasse (con tanti adeguamenti necessari) il bel programma di governo che nel 2013 era una promessa di Lombardia assai diversa da quella che il ciclo finito del centrodestra ha prodotto
Un’agenda possibile
- Il primo punto in agenda dovrebbe incoraggiare un pensiero attorno al patto necessario tra le realtà urbane (tutte vinte dal centrosinistra) e i territori (tutti ancora a esito elettorale incerto) che – fuori dalla legge Del Rio, fuori dal pensiero corto di una politica ormai separata dall’impresa e dall’innovazione – possono fare dell’asse Milano-Lombardia una cosa per cui persino il paragone bavarese potrebbe essere ormai inutile, riduttivo e superato.
- Il secondo grande argomento per il civismo è, appunto, quello della rappresentanza della “questione settentrionale” . Come è storicamente proprio dell’autonomismo territoriale, la specificità – rispetto alle prudenze e ai tatticismi di un partito nazionale – qui può accogliere con naturalezza istanze che affidate a una forza populista diventano una caricatura, buona per finire nei telegiornali, inutile per risolvere problemi.
- Il terzo punto di una agenda ripensata riguarda tuttavia le connessioni nazionali che restano ben possibili, tra soggetti (oggi in crescita) che non solo predicano ma che possono anche promuovere con risultati esperienze di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva, diverse con evidenza rispetto alla militanza dell’applauso e alla partecipazione intermittente regolata da comitati di direttorio.
- Quarto punto è quello della nuova (quanto antica) priorità territoriale e urbana in Europa per affrontare le debolezze sfibrate degli interessi nazionali attraverso una citoyannitè civile secolarmente sperimentata con la cultura dello sviluppo in grado – a differenza di ogni forma di xenofobia – di autogestire le sfide (anch’esse secolari) dell’integrazione.