BERLINO – Nessuno pensa che davvero in Germania si arriverà all’esproprio dei grandi gruppi immobiliari, ma la manifestazione popolare con la marcia di protesta per richiamare l’attenzione sul grosso problema degli affitti nella Capitale, è di una valenza politica che va di là dell’immaginabile.
E’ per questa ragione che il corteo di decine di migliaia di persone che hanno sfilato sulla Alexanderplatz raccogliendo le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare fa tanto scalpore nell’Europa dei paesi ricchi.
Si tenga a mente che in Germania come in Italia, In Francia come in Spagna e via elencando dove vige il libero mercato dei canoni di locazione, non è stato introdotto alcun vincolo capace di avvicinare i prezzi degli affitti alle reali posibilità economiche delle famiglie.
Pertanto il quadro che ne scaturisce è, a dir poco, drammatico e conferma che, se i disagi si aggraveranno potrebbero mettere in grande pericolo la pace sociale in Europa.
La ragione è molto semplice: come potrebbe mai un referendum imporre degli aumenti salariali e un abbassamento dei prezzi degli affitti degli alloggi?
Infatti, il referendum che si basa sugli articoli 14 e 15 della Costituzione tedesca (scritta nel 1949), chiede di espropriare le case di proprietà delle società di investimento private con almeno 3 mila appartamenti e se venisse approvato farebbe diventare di proprietà pubblica 200 mila appartamenti.
Per la cronaca, gli articoli 14 e 15 che contemplano l’espropriazione di beni «per il bene della collettività», pur prevedendo un indennizzo per chi subisce l’esproprio, non sono mai stati applicati. Tuttavia già si cominciano a sentire le campane a morto, e il mainstream che intona,« la fine dell’economia di mercato; la rivincita del comunismo in Germania e in Europa, il fuggi fuggi degli imprenditori». Eppure tutti sanno che, per ottenere il via libera legale al referendum, comunque non vincolante, sono necessarie le firme del 7 per cento dei berlinesi – 174 mila persone circa – che dovrebbero essere raccolte entro quattro mesi, altrimenti la richiesta decade.
Non so quante firme siano state raccolte durante il corteo di sabato scorso. Comunque sia, l’aumento degli affitti, il moltiplicarsi degli sfratti per morosità e i pignoramenti, la crescita a dismisura dell’incidenza dell’affitto sui redditi delle famiglie. è una “tragedia” condivisa dalla gran parte dei cittadini europei, con tanto di classifica delle città più care.
In Germania la sinistra istituzionale – come avviene in Italia – non suggerisce rimedi convincenti, soltanto la sinistra radicale, la Die Linke, assieme ad alcuni membri dei Verdi, sostengono la campagna per gli espropri. Insomma, silenzio su tutto il fronte o quasi non soltanto in Germania, ma anche in tutti quegli Stati europei dove il problema esiste, con le città che trasudano malessere, dove però non si riesce a “scuotere” i politici che le governano. C’è una presa di distanza contagiosa della politica, che accomuna gli stati europei ,sulle «questioni sociali», poiché esse sono difficili da gestire, perchè l’ oggetto del contedere non sono le ragioni di lavoro, bensì le condizioni di vita che si prestano facilmente a infinite manipolazioni mediatiche e populiste.
Nessuno, e tanto meno la sinistra di tutta Europa cerca di dare una dimensione a questo malessere alimentato da una tensione, che dilania la comunità che ne è afflitta, mettendo in discussione l’insieme dei rapporti sociali.
Eppure non ci vuole molto a capire che , il malessere che genera un movimento di protesta come questo berlinese o quello di Milano contro i rincari degli affitti, si fonda sul «risentimento» contro le profonde disuguaglianze statistiche considerate una per una. Milano con più tasse, più costosa, con peggiori condizioni di vita di Berlino, perchè? E’ una domanda – tra le tante – che arrovella, che crea disagio. Si possono cambiare le città protagoniste dei confronti, non fa differenza. Sono le risposte al perché che mancano, e quando ci sono non sono soddisfacenti, non appagano, creano malessere appunto.
Insomma, si sono create tutte le condizioni per scatenare una rivolta come lo fu quella del Sessantotto. Questa però sarà peggiore perchè priva di un soggetto storico. Le protagoniste vere sono le «moltitudini» che anelano a migliori condizioni di vita, assieme al desiderio di riscattarsi dalla loro inesistenza sociale.
Nel Sessantotto era diverso. Non era la rivolta dei poveri contro i ricchi, bensì la rivolta dei figli contro i genitori. Una rivoluzione che ha spazzato via concettì come l’autorità, la famiglia, la Chiesa e tuttavia, quella rivolta sopravvive nella memoria per i cambiamenti che è riuscita ad imporre come lo sono in Italia il divorzio, l’aborto e la maggiore libertà dei costumi.
Oggi nel mondo della supremazia e della competività, dei centri commeriali e dei flussi turistici, si tende a tergiversare sulle cause della progressiva scomparsa della democrazia all’interno della società, sulla crescente disuguaglianza economica. Prevalgono i fiumi di parole e le mille piroette nelle quali di là del tono è difficile distinguerne l’origine politica.
È una melassa che irrita. Al centro non c’è certamente l’ideale di uguaglianza civica. Invece di promuovere la comunità, le persone vengono ordinate in cassetti separati.
Quelle che in Europa protestano contro il caro affitti in quale cassetto sono destinate?
È ancora presto, troppo presto per decidere qual è il cassetto. Vediamo cosa accade