Stanno per ricorrere i cinquant’anni di Piazza Fontana.
Per la mia generazione quel boato, quel cratere dentro un edificio attiguo all’Arcivescovado di Milano, accanto al Duomo, quell’odore acre rimasto a lungo nell’aria, fu la più evidente, quanto anche assurda, conclusione di un decennio che da ragazzi avevamo vissuto come “i formidabili anni sessanta” ma che nella fase finale, dopo i giorni delle belle battaglie e delle belle bandiere, si andava tingendo di fosco, di strano, di cupo.
Come quel freddo e brumoso pomeriggio in cui l’orologio della Banca Nazionale dell’Agricoltura si fermò sulle 16 e 37 del 12 dicembre del 1969.
Ci siamo portati dietro per quasi tutta la vita gli insoluti di quella vicenda, come una metafora di un paese che aveva avuto a lungo molti, troppi angoli di inspiegabilità. Che rimandavano da uno all’altro, con processi spostati da nord a sud, con sentenze (se ne contarono 17 tra Milano, Catanzaro, la Cassazione e il CSM) che non riusciranno mai a restituire giustizia alle 17 vittime (quattro in più dei morti all’istante) e agli 88 feriti.
Accorremmo allora – studenti universitari con qualche impegno pregresso nella vita civile e politica della città – verso la fine del pomeriggio, leggendo al di qua delle transenne, ormai invalicabili, angosciosi silenzi e diffusa incredulità.
La trama non fu subito chiara, ovviamente. Nemmeno i cinque attentati progettati complessivamente nel giro di una cinquantina di minuti tra Roma (alla BNL, all’Altare della Patria e a Piazza Venezia) e a Milano (con una bomba inesplosa a Piazza della Scala oltre a quella esplosa alla BNA).
Negli anni successivi – dopo piazza della Loggia (1974), dopo la strage dell’Italicus (1974), dopo la strage alla stazione di Bologna (1980) – mentre piste e despistaggi avevano avvelenato ogni possibile verità attorno al crimine di Piazza Fontana, si comprese il teatro oscuro manovrato in nome di un copione che giorno per giorno prese il nome di “strategia della tensione”.
Sì, “gli anni piombo” cominciano quel 12 dicembre e durano a lungo, molto a lungo. Con tragici strascichi ancora nella prima parte degli anni ’80.
Il centrosinistra degli anni ’60 assicurò riforme importanti ad un paese come l’Italia, che non era riuscito a riformare lo Stato grazie alla pur profonda trasformazione costituzionale, come la scuola media unica, lo statuto dei lavoratori, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. Ma ormai a fine decennio quella formula politica tentennava pesantemente sotto i colpi prima del ’68 studentesco, poi del ’69 operaio. Il conflitto di piazza insieme a nodi sociali e occupazionali che derivavano dall’avvio di una ristrutturazione dei processi produttivi che segneranno molto la riorganizzazione economica degli anni ’70, non erano più partite solo di libertà tra soggetti che si confrontavano.
Proprio quello Stato non riformato, si rivelava carico di apparati d’ordine e di servizi segreti che parevano non rispondere più in modo trasparente alla democrazia costituita. Ma a componenti di un quadro politico che aveva deciso di provocare una destabilizzazione. Che si muoveva, in una condizione di progressivo estremismo, verso uno spostamento politico a sinistra che si voleva fermare e distruggere. L’estremismo di destra era dunque una manovalanza connivente, a disposizione per costruire una trama di vicende tanto oscure quanto inafferrabili. E comunque coperte costantemente ogni volta che un filo della matassa appariva distinguibile o presumibilmente colpevole.
Così assistemmo prima al depistaggio verso presunte responsabilità degli anarchici, imparando a conoscere storie e figure – Valpreda, Pinelli, altri del Circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa a Milano – travolte e poi uscite dai copioni. Poi verso più accertate responsabilità di estremisti neofascisti (Freda, Ventura e altri ancora), con accertata responsabilità dell’organizzazione Ordine Nuovo (Cassazione, 2005) non sino al punto di chiudere condanne chiare e definitive e in ultima analisi colpevoli ma non più processabili “perchè assolti con sentenza definitiva nel 1987”.
E ancora figure riconducibili a responsabilità istituzionali, incredibilmente con disinvolti poteri in un paese ormai fuori dal fascismo da 25 anni, dal torbido “agente zero” dei servizi segreti Guido Giannettini, espatriato con solide coperture e molti altri nomi che riguardano figure di alta responsabilità: dal questore di Milano Marcello Guida (che era stato con il fascismo nientemeno che il direttore del carcere per gli antifascisti confinati a Ventotene), piuttosto che ufficiali dei servizi segreti reticenti e conniventi, tra cui Gianadelio Maletti e Antonio Labruna e in altre fasi del processo da figure ancora più di spicco come i generali Miceli e Malizia, sempre connessi ai servizi. E altre figure del neofascismo terroristico, da Stefano Delle Chiaie a Massimiliano Fachini.
Piazza Fontana – con i casi, che negli anni successivi si intrecceranno, sia della morte dell’anarchico Pinelli, sia dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, allora sottoposto al questore Guida – è così diventata metafora di un’Italia mai fino in fondo e interamente entrata nello spirito e nella lettera della Costituzione.
Un percorso durato cinquant’anni.
Narrato non solo da quelle 17 sentenze, ma anche da una decina di inchieste televisive (in cima a tutte “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli), da una quarantina di libri, da spettacoli teatrali e da colonne sonore. Antonio Carioti, giornalista del “Corriere della Sera” esperto di storia, ha introdotto una pagina recente in annuncio di un libro dossier del suo giornale in uscita per questo cinquantennale, con una sintesi efficace di questa lunghissima narrazione: è vero che la democrazia italiana ha respinto la provocazione, perché l’eversione tentata non è giunta alle sue estreme conclusioni; ma è anche vero che la provocazione ha manipolato la democrazia italiana perchè lo Stato non è riuscito a fare giustizia.
Oltre al dossier del Corriere molti sono i nuovi testi che in questo 2019 svolgono ripensamenti, propongono piste interpretative e aggiornano gli approfondimenti.
Ho trovato molto efficace – narrativamente e documentariamente – il saggio “La bomba – cinquant’anni di piazza Fontana “ di Enrico Deaglio, giornalista e saggista, edito da Feltrinelli che ha dedicato molto tempo a questa ricostruzione che si appoggia a tre punti di evidenze: il guasto provocato nelle cause e nelle coperture dell’evento da uno Stato non riformato con annidati poteri di polizia antisistema; gli apparati paralleli dei servizi segreti che nel corso di quel lungo decennio che va da Piazza Fontana al caso Moro mostreranno capacità di dare ruolo al terrorismo in un caso di destra, nell’altro di sinistra; la conflittualità interna della magistratura che si andrà rivelando come l’ambito di una interdizione procedurale che provocherà l’inefficacia della giustizia.
Nelle pagine di Deaglio fa spicco la figura di Sandro Pertini, allora presidente della Camera, già detenuto nel carcere di Ventotene diretto dal questore Guida (che sarà in prima fila sull’evento di Piazza Fontana). Pertini non volle incontrare il questore, esprimendo tutte le sue riserve sul funzionario e – come scrive Deaglio – dimostrando “fin dal primo giorno di aver capito tutto” sulle operazioni di depistaggio messe in atto.
Raffaele Liucci ha presentato sul Sole 24 ore (8.12.2019) altri tre testi, quello di Mirco Dondi, 12 dicembre 1969, Laterza; quello di Paolo Morando, Prima di piazza Fontana. La prova generale, Laterza; e quello di Benedetta Tobagi, Piazza Fontana, il processo impossibile, Einaudi. Il tasto batte sullo stesso punto. E Liucci lo chiama “il vero mostro di Piazza Fontana”. “Non il ballerino anarchico Pietro Valpreda, così apostrofato all’epoca anche dal Corriere della Sera, bensì le centinaia di faldoni giudiziari, frutto di cinque istruttorie, tre processi, dieci gradi di giudizio complessivi: senza che un solo colpevole risultasse condannato in via definitiva”.