Quattro ragazzi, un flash mob e l’Italia prende la scossa. Il neonato fronte antisovranista invade le piazze da Nord a Sud e si propone come un’alternativa al declino della società e al suicidio della politica. Sabato prossimo a Roma il battesimo nazionale del movimento, che si candida a riempire con creatività il vuoto di rappresentanza di un sistema politico largamente confiscato dai partiti
Sardine in cerca d’identità convergono su Roma, dopo aver invaso da Nord a Sud le piazze d’Italia. Vera novità nel panorama politico delle ultime settimane, questa protesta partita dal basso, senza bandiere di partito, inizia il 14 novembre a Bologna, dove quattro ragazzi organizzano un flash mob contro la Lega, il populismo e l’antipolitica. A Piazza Maggiore rispondono in quindicimila, armati di sardine di cartone, tutti stretti stretti come pesci in scatola per contrastare nelle piazze la “retorica populista”. Dopo Bologna la stessa scena si ripete a Parma, Genova, Piacenza, Verona, Urbino, Mantova, Ferrara, Monfalcone, Napoli, Firenze, Treviso, Livorno, Milano, con un contagio che diventa ogni giorno più diffuso. Belle piazze di un’Italia pacifica e sorridente, piene di gente di ogni età, una gran voglia di partecipazione democratica come non si è vista da anni. Sabato prossimo a Roma, in quella Piazza San Giovanni storico luogo di lotta e di memoria della sinistra italiana, va in scena il battesimo nazionale del movimento, con il sostegno dei partigiani dell’Anpi, dei papaboys, di diverse comunità immigrate, di significative figure della politica e della cultura come Romano Prodi, Liliana Segre e Roberto Saviano e, infine, con l’insinuante adesione di Francesca Pascale, la compagna di Silvio Berlusconi.
Al di là della curiosità che suscita o delle speranze che accende, questo composito fronte variopinto, che naviga nel vuoto aperto dalla paralisi della rappresentanza politica, è qualcosa di non facilmente incasellabile. Una rivoluzione “ittica” in pieno divenire, che fin dal suo esordio si presenta come un antidoto al disfacimento della società intossicata dalla retorica sovranista degli ultimi anni. Ma allo stesso tempo la riproposizione di una dinamica ricorrente, una sorta di déja-vu, che genera interrogativi sull’effettiva legittimazione a rappresentare e sul carattere politico di questo ennesimo coinvolgimento popolare, che ha antecedenti di spicco nella Pantera e nelle bandiere arcobaleno, nei girotondi e nel popolo viola, fino alle liste di proscrizione dei primi V-Day di Beppe Grillo.
Un paradosso che colpisce e che maggiormente sorprende è la vertiginosa crescita di consenso di questa sorridente e improvvisata mobilitazione anche fra coloro che non si sognano nemmeno lontanamente di scendere in piazza con una sardina di cartone fra le mani. Secondo l’Istituto Demos il 38% degli elettori interpellati è favorevole alle manifestazioni del fronte antisovranista e un elettore su quattro si dice disposto a votare un partito costituito dal movimento delle sardine. Da ultimo, un dato da non sottovalutare: se le sardine decidessero di diventare un vero e proprio soggetto politico, stando alla rilevazione, non solo rosicchierebbero voti ad altri partiti, ma riporterebbero al voto una buona percentuale di astensionisti.
Oggi la dimensione nazionale dell’onda d’urto antisalviniana a cui hanno dato avvio Mattia Santori, Andrea Garreffa, Roberto Morotti e Giulia Trappoloni è così estesa e così forte da dimostrare, in modo indiretto, il legame indissolubile che esiste in Italia tra responsabilità politica e partecipazione. Una riprova a contrario: più i leader del movimento negano di voler fondare un proprio partito, più pressante si pone il problema della loro collocazione politica. Storicamente in Italia, come in ogni moderna democrazia pluralista, il tema della corrispondenza tra elettori ed eletti, che costituisce il nucleo della rappresentanza politica, dipende innanzitutto dalla capacità di mediazione dei partiti. Nel nostro paese questa capacità appare oggi in affanno a causa di due fattori: il primo è il proliferare, a destra come a sinistra, di “partiti pigliatutto” – secondo la definizione coniata da Otto Kirchheimer – che mirano al potere piuttosto che alla rappresentanza; il secondo è l’arroccamento di un sistema parlamentare in cui gli eletti dipendono dai partiti piuttosto che dagli elettori e, di conseguenza, rappresentano i partiti più che gli elettori. Accantonando in maniera sistematica l’interesse collettivo, la rappresentanza politica ha definitivamente perso la sua funzione sociale, diventando un puro scambio a vantaggio di interessi parziali e corporati.
Dinanzi a questa voragine aperta, effettiva o percepita che sia, è vano il tentativo da parte dei fondatori del neonato movimento di negare il loro potenziale politico rispetto a un quadro rappresentativo in pieno disfacimento. Le sardine si muovono oggi in un orizzonte in cui la rappresentanza politica è diventata “rappresentanza snaturata”, per usare le parole di Philippe Ardant. Confiscata prima e snaturata poi da quegli eterogenei contenitori di interessi personali e corporativi che sono divenuti i partiti italiani nel corso degli anni Novanta. Navigano le odierne sardine in un sistema in cui gli eletti vengono additati da una pluralità di voci come meno capaci e meno competenti del necessario e quindi non legittimati a rappresentare larghe fette di popolazione. Questo vuoto che c’è tra la politica e la società produce effetti devastanti e non si colma semplicemente – come ha dichiarato ieri Mattia Santori – dando una motivazione a chi non si accontenta di scegliere tra le provocazioni di Salvini e l’indifferenza di alcuni partiti.
In relazione alla crisi sistemica della rappresentanza politica in Italia il problema che si pone è quello di comprendere se e in che modo sia possibile recuperare, anche attraverso un ripensamento della forma partito, un ruolo centrale, sia di sintesi che di promozione, degli interessi sentiti dall’elettorato e dai cittadini. Anche quei girotondi che affollavano le piazze all’epoca del secondo governo Berlusconi dicevano che non volevano sostituirsi ai partiti, che volevano solo stimolarli. Sergio Cofferati, divenuto per acclamazione leader della sinistra girotondista nel gennaio 2003, scelse poi un’altra strada, si candidò sindaco a Bologna e dei girotondi si persero le tracce. La loro effimera parabola, priva di qualsiasi struttura organizzativa, dimostra come, al di là delle persone, esista un legame indissolubile fra partecipazione e responsabilità politica, fra coscienza pubblica e mandato rappresentativo. Non tenerne conto condannerebbe ogni idea politica, anche la più nobile e feconda, all’inattualità.
La capacità di sintetizzare su scala nazionale un efficace antidoto al potenziale venefico della retorica sovranista va sicuramente nella direzione di recuperare allo spazio politico un ambito che gli è proprio, ossia quello della rappresentazione effettiva dell’interesse collettivo. Così come salubre appare il coinvolgimento di larghe fette di elettorato, soprattutto giovanile, che avevano reagito alla deriva populista con un atteggiamento passivo, di ritrazione e di stanchezza. Il passo successivo, per il battesimo nazionale del movimento a Piazza San Giovanni sabato prossimo, è di immaginare con coraggio e creatività non uno stile antagonista di partecipazione, ma un orizzonte politico in cui la volontà degli eletti si identifichi con quella degli elettori. In altre parole, la vera rivoluzione, sia essa “ittica” o civica, sarà mettere al centro del dibattito pubblico nazionale quel rinnovamento del sistema politico che faccia sì che il principio rappresentativo, troppo a lungo confiscato e vilipeso, torni a essere uno degli istituti centrali della democrazia in Italia. È arduo, ma talora si riesce a farlo. L’alternativa pura e semplice è l’inevitabile atrofia di un’idea.
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Lessico semiserio dell’impolitica italiana
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