Perentorio e terribilmente “incazzato”, il sindaco di Milano Beppe Sala si è espresso senza tanto girarci intorno: “vergognoso, o si cambia o chiudo”. L’improvvida movida di giovedì è durata il tempo di una corsetta gaudente ed effimera in canotta rigorosamente griffata, accompagnata da selfie sui social dalla retorica post bellica (bentornata libertà, lasciateci respirare), seguita magari da un un bicchiere fugace e vorace. E’ molto probabile che negli stessi istanti, si passeggiava lungo i corridoi delle terapie intensive e sub-intensive ma per tutt’altra “fretta” lottando contro il tempo per salvare vite umane, riconciliare famiglie angosciate a casa senza uno straccio di notizia sui loro “congiunti”.
L’abisso sta tutto qui ed è profondo, incolmabile e se mi permettete intollerabile. Per sentirsi combattenti per la stessa causa non bastano video-balconate a favore di obiettivo anche perchè se si è irresponsabili si può passare da “bella ciao” a ciao bella” in pochi passi.
Per questo il sindaco Sala (e anche noi) ci incazziamo e anche tanto perchè esiste un fattore P in questa storia apocalittica del coronavirus a cui molti italiani o si convincono prima che si arrivi al disastro del contagio di ritorno oppure si piegheranno per forza. Ci sono dei passaggi della storia che esortano alla convinzione quand’anche si percepiscono come costrizione; tali momenti dividono il mondo tra stolti e saggi, come la parabola evangelica. Questo fattore è “partecipazione” attiva alla lotta contro il Covid poiché non è tempo di scaricare il barile delle responsabilità ad altri (oggi il governo, domani il vicino di casa, dopodomani la chiesa o i poteri forti, le lobbies ed altre stronzate). Non amiamo lo stato etico che conta i passi dei cittadini ma certamente amiamo il discernimento dei cittadini sui passi che compiono. Un discernimento che pondera non le grandi scelte di senso ma il senso delle piccole scelte (posticipare una passeggiata o spostarsi in luoghi isolati, un drink fatto in casa, darsi i turni per la spesa eccetera). Sono questi – cari amici del provvisorio – le azioni di contrasto alla diffusione del contagio pari (per qualità) ai piedi piagati di medici, infermieri, anestesisti e ricercatori. Molti di noi sono ostinatamente convinti di essere o sudditi passivi o paraculi e non hanno in questi anni la consapevolezza del colibrì che – secondo la favola – fa la sua parte.
Una antica favola africana racconta del giorno in cui scoppiò un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e scapparono spaventati.
Mentre se la dava letteralmente a gambe, il leone vide un colibrì che stava volando nella direzione sbagliata.
“Dove credi di andare?” – chiese il Re della Foresta – “c’è un incendio, dobbiamo scappare!”.
Il colibrì rispose: “Vado al lago, per raccogliere acqua da buttare acqua sull’incendio”.
Il leone domandò prontamente: “Sarai mica impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio gigantesco con quattro gocce d’acqua?”
Al che, il colibrì concluse: “Io faccio la mia parte”.
E per stare dentro la cultura ambrosiana, un Giorgio Gaber (forse dimenticato dagli amanti dell’aperitivo) cantava che la libertà è partecipazione.
Versi probabilmente risuonati come un appello tragico e martellante forse nella testa di un arrabbiato Beppe Sala. Per il sindaco non ho la piena certezza ma io quei versi li ho ricordati.