The New PublicUmanoide, troppo umanoide

Una mostra al Mudec sulla storia dei robot che è anche una riflessione etica sul confine tra noi e le macchine intelligenti

Il demone di Manfredo Settala e Robothespian della Engineered Arts Ltd al Mudec - Foto © Sergio Levi

Curata da Alberto Mazzoni, Antonio Marazzi e Lavinia Galli, la mostra Robot. The Human Project narra la storia dei rapporti tra esseri umani e agenti artificiali, tracciando un percorso espositivo articolato in sei tappe.

Dai congegni semoventi antichi e moderni (come il sontuoso Leone meccanico di Leonardo) al primissimo computer da tavolo prodotto dalla Olivetti nel 1965 ed esposto al MoMA di New York, dai prodigi della bionica (altro che cyborg!) ai sosia umanoidi che fanno più paura del demone di Settala (vedi foto), dai collaborative robot (Cobot) che riconoscono le emozioni ai progressi inarrestabili dell’Intelligenza Artificiale, con le sue ricadute sul piano etico e sociale.

Con un messaggio di fondo molto chiaro: se gli automi dell’antichità avevano la funzione di stupire divertendo, i robot antropomorfi e biomorfi di ultima generazione svolgono importanti funzioni in campo scientifico, militare e umanitario.

L’allestimento è ispirato a un approccio immersivo ed esperienziale che mira a suscitare nel pubblico (soprattutto nei più giovani) il desiderio di approfondire la conoscenza della robotica, sia nelle sue basi scientifiche sia nelle sue applicazioni sociali. La possibilità di interagire con gli automi ha infatti l’effetto di riportarli sulla terra, dissolvendo quell’aura fantascientifica che spesso circonda i prodotti tecnologici.

Pur senza rompere l’incantesimo dei Super Robot giapponesi degli anni Ottanta (a cui è anzi dedicata la sezione Pop Culture, una mostra nella mostra di circa 200 esemplari), il progetto espositivo torna con insistenza sul confine fra uomo e macchina: anche quando questo sembra assottigliarsi, in realtà si fa più netto, come nel caso degli androidi in silicone la cui somiglianza con l’originale può diventare, oltre una certa soglia, addirittura perturbante (vedi alla voce «uncanny valley»).

Accanto al tema della perdita di familiarità, la mostra offre qualche spunto di riflessione sulle ricadute sociali dell’automazione trainata dall’Intelligenza Artificiale e dai Big Data. Da quasi vent’anni assistiamo alla diffusione di device e piattaforme social che consentono alle corporation di predire e influenzare il comportamento dei cittadini e degli elettori.

Mentre queste forme di marketing rappresentano il lato oscuro di internet, anche nel senso che non se ne conoscono le reali dimensioni, la robotica (soprattutto quella di consumo) sembra destinata a incarnare, agli occhi del pubblico, il volto rassicurante della tecnologia, proprio grazie a quella strana, goffa socievolezza (molto meno insocievole della nostra) che caratterizza i robot di compagnia.

Merito non secondario di questi allestimenti è favorire la diffusione di una technological literacy non insensibile alle questioni etiche, che ci renda maggiormente consapevoli del nostro posto nel mondo, insegnandoci non solo a conoscere e dominare i robot (anziché temerli o bullizzarli, come amano fare i bambini), ma soprattutto a non rimuovere la fondamentale distinzione fra noi e le macchine, fra il potere che esercitiamo su queste e il rispetto che dobbiamo alle persone. Visitabile fino al primo agosto. Da sabato 22 maggio anche senza prenotazione.

 

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