Addio a Walter Bonatti, addio all’Italia che cercava il riscatto

Addio a Walter Bonatti, addio all’Italia che cercava il riscatto

«Dieci giorni dopo gli scontri, camminai nel campo di battaglia. Era una carneficina. C’erano veicoli bruciati, e corpi a pezzi dappertutto. Nel fiume e sulla terra. Sapevo che il fiume [il Po] non offriva nessuna speranza. E allora ho alzato gli occhi verso la sua sorgente, e ho visto le montagne. In quel momento, ho deciso che arrampicarmi doveva diventare la mia vita». Così raccontò, in un’intervista al Guardian, Walter Bonatti, leggenda dell’alpinismo mondiale morto a Roma stanotte, all’età di 81 anni, la nascita del suo amore per la montagna. Era il 1945, e la fine della guerra rivelava il suo lato più cruento. Era naturale, per lui, cercare una strada nuova, e trovarla nelle scalate.

Ma raccontare la storia di Bonatti non è semplice. Da ragazzo che vide Mussolini appeso a Piazzale Loreto, diventò uno dei protagonisti dell’Italia che cercava il riscatto, dopo i disastri della guerra. Conobbe la gloria, ma per molto tempo anche l’ingiustizia, e la calunnia.

Si possono seguire, come nodi di una cordata, le sue conquiste: nel 1951 espugna primo nella storia, il Gran Capucin, un massiccio di granito rosso lungo la cresta du diable, nel comprensorio del Monte Bianco: e dà il suo nome alla via tracciata. Nel 1955 tocca al Petit Dru (pilastro sud-ovest, la Poire), qui, di fronte a una parete inaccessibile, si ritrova bloccato. Ed escogita il pendolo, il grappino, con tutte le corde a sua disposizione. Una soluzione geniale che gli apre le porte dell’ammirazione generale. Poi è la volta delle Ande, della Patagonia e dell’Asia, sul Karakorum. Nel 1963 la scalata della Grandes Jorasses e nel 1965 dà l’addio all’alpinismo scalando, in solitaria, la parete nord del Cervino. Ricevendo, per questo, una medaglia dal Presidente della Repubblica.

Ma è il 1954 l’anno che segna la vita di Walter Bonatti. La spedizione sul K2, che porta all’Italia la gloria della conquista della seconda cima più alta del mondo, finirà per lui in modo negativo, come un’esperienza «fin troppo crudele» per la sua giovane età. Aveva 24 anni (compiuti proprio alle pendici del K2), il più giovane della spedizione con un fardello enorme. Nell’epoca in cui l’Italia cercava nuovi eroi e qualche vittoria per dimenticare la guerra, partecipa alla spedizione finanziata dal Cai, sotto la guida rigida di Ardito Desio, soprannominato, appunto, “il ducetto”, e con Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, destinati a raggiungere la vetta.

Ma l’incidente arriva nella notte tra il 30 e il 31 luglio: Bonatti, insieme all’hunza Mahdi, era incaricato di portare le bombole di ossigeno a Compagnoni e Lacedelli, al campo IX. L’ultimo, prima della conquista della vetta. Ma i due compagni avevano allestito il campo 250 metri più in alto rispetto a quanto concordato. Bonatti arriva invece al luogo prefissato che è già buio, e non può raggiungerli. Di fronte alle sue grida, i due non rispondono. Abbandonati nella zona della morte, a 8.100 metri, dove le temperature possono arrivare a -50°, senza tende né sacchi a pelo, con l’arrivo di una bufera, Bonatti e Mahda affrontano la notte. Mahda, avrà dita delle mani e dei piedi congelati, e saranno amputati, mentre Bonatti se la caverà senza problemi. «Mahda era il migliore di tutti gli hunza. Se siamo arrivati lassù, è stato merito suo», disse poi.

Eppure, i suoi compagni «quella notte mi avevano condannato a morte». E, come se non bastasse, «mi hanno consegnato al dileggio, accusandomi di mentire, di essere un imbroglione». Al termine della missione, Bonatti venne accusato di aver consumato parte dell’ossigeno delle bombole, per rendere più difficile ai compagni l’ultimo tratto, prima della vetta.

Una calunnia, durata oltre cinquant’anni, che venne smontata solo nel 2004. Ma per tutto quel tempo, Bonatti fu impegnato nella battaglia, dura, per la riconquista del suo onore. Ma non solo: «Era una spedizione finanziata da soldi pubblici italiani. Ho sempre pensato che gli italiani meritassero di sapere come erano andate davvero le cose». I ricordi amari di quell’esperienza lo perseguiteranno tutta la vita, così come le grida di Mahdi, «No good Compagnoni sahib! No good Lacedelli sahib!», che echeggiavano quella notte in cui doveva morire «ma non è successo, ed è dipeso solo da me».

Ma la morte visiterà ancora Bonatti lungo le spedizioni. Dai disastri della guerra, alla perdita della madre, incredibilmente morta per la gioia del primo grande successo del figlio, nel 1951 per un malore seguito all’entusiasmo. Poi sul Monte Bianco, nel 1955, e poi nel 1961, sul pilone centrale del Freney, in una disastrosa spedizione in cui perderà anche l’amico Andrea Oggioni.

Walter Bonatti, Mountains of my life edito da Penguin
Bonatti conobbe anche l’amore di una delle donne più belle dell’epoca, l’attrice Rossana Podestà. Lui, abbandonato l’alpinismo, aveva deciso di dedicarsi a reportage giornalistici, lei inviava nelle interviste, messaggi criptati per quello che considerava un suo mito. Come raccontò poi, nel 1980 un giornalista le chiese con chi avrebbe voluto andare su un’isola deserta. Le non ebbe esitazioni: Walter Bonatti. Dopo qualche giorno, le arrivò una lettera, proprio da parte sua. «Di isole deserte ne conosco diverse», le aveva scritto. «Perché non ci incontriamo per decidere?». E fu così che si diedero il primo appuntamento, all’Ara Coeli. Lei raccontò: «All’orario stabilito, però, non lo vidi arrivare. All’epoca non c’erano ancora i cellulari, e aspettai. Dopo due ore ebbi un sospetto, e voltai l’angolo. Lo vidi davanti all’altare della Patria, che si era confuso, mentre difendeva la posizione da un nugolo di vigili che volevano che spostasse l’auto». Si era confuso. Ma che esploratore sei, se ti perdi a Roma? Gli chiese lei.

Ma l’amore continuò. Lui, un giorno, le salvò anche la vita. «Eravamo a fare una passeggiata in montagna – raccontò Rossana Podestà – C’era sole e il terreno era piatto. Non sembrava potesse esserci alcun pericolo. Ma all’improvviso, Walter mi gridò di fermarmi. E dopo pochi istanti mi si aprì di fronte un crepaccio, che mi avrebbe inghiottito se avessi continuato». Il suo senso della montagna non lo aveva mai abbandonato, anche se dopo l’addio all’alpinismo, aveva esplorato il mondo. Prima in Sud America, dove raggiunge l’alto Orinoco, poi cerca le sorgenti del Rio delle Amazzoni, e ancora, nelle isole Marchesi, dove ricostruisce il percorso compiuto da Melville, dimostrandone la veridicità. Ma non trascura l’Australia, le forse vergini, l’Africa, e ancora la Patagonia. Una serie di viaggi, di avventure dal sapore antico.

Ma il suo primo amore, quello che lo rese glorioso, rimase sempre la montagna. Che gli insegnò tutto: correttezza, precisione. E la saggezza di chi, dopo una lunga fatica, si ritrova in cima al mondo, contemplando distese immense sotto ai suoi piedi. «Vede, la vera essenza dell’alpinismo, cioè di conoscere davvero, e di amare davvero le montagne – spiegò in un’intervista – non è di raggiungere la vetta. È, invece, avere l’umiltà e la consapevolezza di sé, quando necessario, di sapersi fermare a cento metri dalla cima, e riuscire a scendere ancora vivi». 

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