Il segreto di Stato cambia e fa un passo in avanti, anche se non molto lungo, verso la trasparenza. Se prima il presidente del Consiglio era tenuto a comunicare al Copasir (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica) solo le “ragioni essenziali” della sua scelta, “in sintesi”, ora, su richiesta del presidente del Comitato, dovrà esporle a tutti i membri, in un quadro più approfondito e chiaro, e in una riunione segreta. Questo permetterà ai membri del Copasir, che rappresentano tutti gruppi parlamentari, un esame nel merito della scelta del presidente del Consiglio, con la possibilità di accedere a tutte le informazioni che hanno spinto il presidente alla decisione di porre il segreto di stato. Queste informazioni, però, dovranno essere tenute segrete dai membri del Copasir, e non le potranno rivelare ai colleghi del Parlamento. La notizia è stata diffusa il due agosto, «e questo non è un caso. Sembra anzi un segnale positivo», spiega a Linkiesta Giuseppe de Lutiis, studioso di intelligence e autore di libri e saggi sui servizi segreti.
Con tutti i suoi limiti, sarà «un passo in avanti, senza dubbio». Perché «permette ai partiti di dissentire sulle decisioni del Presidente della Repubblica, attraverso i loro rappresentanti», ma soprattutto «perché va verso una maggior trasparenza». E questo è senz’altro auspicabile, visto che l’Italia, in questo senso, era rimasta molto indietro.
«Negli anni settanta eravamo all’avanguardia, con la costituzione dei comitati parlamentari. Prima ancora dell’Inghilterra», poi però, «ci siamo fermati», mentre Londra è andata avanti, «nella de-segretazione dei documenti soprattutto». Spesso gli storici, per comprendere le dinamiche italiane «si servivano di documenti che erano nel possesso degli inglesi» e dunque, «accessibili». Anche negli Usa l’atteggiamento è molto più trasparente. L’Italia aveva un forte ritardo. «Meno giustificato, soprattutto, dal 1989 in poi», da quando, cioè, la situazione politica internazionale è mutata in modo decisivo e le dinamiche di alleanze e accordi sono cambiate. «Il segreto di Stato è stato spesso usato in modo scorretto e ne hanno abusato».
I casi sono tantissimi, e vanno «dalla strage di Portella della Ginestra, dove per anni si è pensato che fossero coinvolti solo mafiosi. E invece si è saputo, tempo dopo, che c’erano anche signori che parlavano inglese». Alle stragi terroristiche, «in cui il segreto di Stato era posto perché erano coinvolti anche elementi dei servizi segreti italiani. Nel caso dell’Italicus, ad esempio, fu posto il segreto di Stato sui colloqui tra il tenente colonnello Federico Mannucci Benincasa e Augusto Cauchi, esponente dell’estrema destra e coinvolto nella strage». Un uso del genere, sostiene, «non è corretto». Il segreto di Stato in sé «non ha nulla di male, sia chiaro. Ma la sua funzione dev’essere precisa, cioè deve proteggere segreti vitali per lo Stato che sono di carattere militare», spiega.
Il problema della ragion di Stato, allora è questo. «C’è, esiste. Ma si deve applicare allora per quello che riguarda davvero lo Stato, e non per proteggere cose come la trattativa con la mafia», e intervenire, «per bloccare processi, o metterli in difficoltà». Una cosa che in Inghilterra non avviene, perché «l’ordinamento inglese permette che il giudice venga messo al corrente di documenti segretati, se questi riguardano un processo. E spetta allora alla sua discrezione la scelta, tra questi, di documenti che possano risultare utili. Ma, così facendo, rompe il segreto». In Italia non è così, ma la direzione è quella giusta? «Un passo in avanti, sì». Ma era doveroso: «tante cose sono cambiate dai tempi della guerra fredda, i servizi segreti stessi sono diversi». Il momento per dare una svolta, e la data è scelta per mandare un messaggio. Resta un punto: «La durata è sempre di 15 anni, prorogabili a 30. E questo succede sempre: il termine viene prorogato ogni volta. Questa cosa va contrastata, anche perché ora potremmo conoscere fatti degli anni novanta, e molte polemiche potrebbero essere evitate».
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