Ecco perché un taglio della spesa pubblica del 5% migliora la vita

Ecco perché un taglio della spesa pubblica del 5% migliora la vita

Si dibatte sul “manifesto di Giannino”, c’è chi ne è entusiasta e c’è chi lo trova insulso. Per quel che mi riguarda solleva un punto: quello dei tagli alla spesa pubblica da attuare nel corso del tempo per un importo pari al 5 per cento. A mio avviso il numero è “giusto”. Riproduco in versione accorciata un mio Box uscito lo scorso anno per il XVI Rapporto sull’economia globale e l’Italia del Centro Einaudi di Torino, edito da Guerini. Laddove – sulla base del libro di Vito Tanzi, Governments versus Markets, Cambridge, 2011 – si arriva al (direbbero i romanisti) al numero “maggico” del 5 per cento.

Si immagini una famiglia media italiana (ma vale per tutti gli altri Paesi detti avanzati) all’inizio del secolo scorso. Viveva in campagna, era patriarcale, i suoi membri vivevano poco, erano analfabeti o quasi. Mangiava quello che produceva coltivando la terra, il nonno veniva imboccato dalla nipote zitella, eventuali miglioramenti del tenore di vita si ottenevano mettendo pazientemente da parte piccole somme di denaro contante che venivano nascoste in un luogo sicuro. Ultima nota, il diritto al voto era appannaggio di un numero minuscolo di italiani. Si aveva suffragio per gli uomini capaci di leggere e scrivere con almeno ventuno anni, mentre gli analfabeti potevano votare dai trenta anni. Le donne non votavano.

Quale Stato uno può immaginare per una società come quella appena descritta? Il cosiddetto “Stato minimo”, ossia quello che garantiva l’ordine interno, l’amministrazione della giustizia, la costruzione delle infrastrutture essenziali, la difesa, e un minimo d’istruzione. Dunque giudici con una gran barba, pochi ingegneri e molti operai, i carabinieri con i pennacchi, i soldati con i baffi e la baionetta, molti maestri e pochi professori. Uno Stato così composto, che possiamo immaginare con gli occhi di Collodi, non poteva costare molto, e, infatti, costava poco e le imposte erano basse.

Si immagini ora una famiglia media italiana (ma vale per tutti gli altri Paesi detti avanzati) all’inizio di questo secolo. Abita in città, la famiglia è mononucleare, i suoi membri vivono molto – quasi il doppio di un secolo prima – e, diventando vecchi, vogliono lo stesso livello di servizi, assistenza e consumi di prima. Sono alfabetizzati e investono in un’istruzione ancora più elaborata per i loro figli. Il loro reddito proviene da lavoro dipendente e sempre meno manuale, oppure da attività imprenditoriale, e per migliorare il loro tenore di vita – acquistare una casa nuova, garantirsi una vecchiaia facoltosa, far studiare i figli ecc. – si fanno assistere dalle banche, o dallo Stato. Ultima nota, il diritto al voto è esteso a tutti dai diciotto anni.

Quale Stato uno può immaginare con una società come quella appena descritta? Allo “Stato minimo” di cui si diceva, va aggiunto il cosiddetto “Stato sociale”, ossia istruzione, sanità, e pensioni. Alle poche figure dello “Stato minimo”, vanno aggiunti i molti professori, gli infermieri e molti medici, tanti assistenti sociali e i numerosi burocrati addetti al controllo e all’esecuzione di questa spesa estesa. Uno Stato composto di molte figure non può non costare molto, e le imposte sono, infatti, alte.

Fra le due guerre è esploso il peso del complesso della spesa pubblica, per effetto della spesa militare. Dopo la seconda guerra si è stabilizzato fino al 1960, e da allora è esploso di nuovo.

Prima conclusione, l’ingresso delle “masse” nella “modernità” ha fatto, nell’ultimo secolo, esplodere il peso dello Stato. Questo è un processo storico che ha coinvolto tutti i Paesi. La crescita della spesa pubblica migliora la qualità della vita?

La risposta è “sì, ma”. La migliora per un lungo tratto, ma da un certo punto in poi, a dosi maggiori di spesa non corrisponde una maggiore qualità della vita. Un esempio. Se espando la spesa per l’istruzione, miglioro la qualità della vita della cittadinanza. Da un certo punto in poi, raggiunto un certo grado d’istruzione, è da vedere se, alla maggiore spesa pubblica, corrisponde una popolazione ancora più istruita, oppure solo un aumento del monte salari degli insegnanti. Un altro esempio. Se espando la spesa per la sanità, miglioro la qualità della vita della cittadinanza. Da un certo punto in poi, raggiunto un certo grado di salute, è da vedere se, alla maggiore spesa pubblica, corrisponde una popolazione ancora più sana e longeva, oppure solo un aumento del monte salari del personale sanitario e dell’indotto.

La spesa pubblica – ragionando in linea logica – dovrebbe essere, come molte cose del mondo, affetta da “produttività decrescente”. È essenziale per modernizzare fino a un certo punto, ma da un certo punto in poi modernizza sempre meno per unità di spesa.

Se questo è vero, allora, cerchiamo una verifica statistica. Non dovrebbero esserci dei Paesi che ottengono di più – più istruzione, più salute – spendendo di più. In altre parole, da un certo punto in poi dovremmo avere circa gli stessi risultati in termini di crescita economica, di salute, istruzione, ecc, sia da chi spende molto, sia da chi spende (relativamente) poco.

Si prendano allora Paesi avanzati con una grande spesa pubblica (fra cui la Svezia), con una media spesa pubblica (fra cui l’Irlanda), con una piccola spesa pubblica (fra cui gli Stati Uniti). La spesa pubblica è composta di spesa diretta e di trasferimenti. La spesa diretta è quella del succitato “Stato minimo”, quella da trasferimenti del succitato “Stato sociale”. Le spese per lo “Stato minimo” sono molto simili fra i Paesi che siano a grande, media, oppure piccola spesa pubblica. La differenza è tutta nella spesa dello “Stato sociale”. I Paesi che spendono di più alla fine hanno all’incirca la stessa crescita economica, la stessa speranza di vita e lo stesso grado di istruzione di quelli che spendono di meno.

La discrepanza colpisce. E dovrebbe confermare il sospetto logico, da cui eravamo partiti, della “produttività decrescente”. Possibile che una spesa da “Stato sociale” minima – spesa pari per i Paesi a bassa spesa sociale pari al 15% circa del PIL circa – produca una speranza di vita e un livello d’istruzione di base eguale a quella di chi spende il doppio, il 30% circa del PIL?

Andando a controllare, la differenza non è così marcata. Ci sono delle complicazioni contabili. Alcuni Paesi trasferiscono dei redditi e poi li tassano, altri li trasferiscono senza tassarli. Il risultato è che in alcuni Paesi le spese sociali lorde sono di molto maggiori di quelle nette. Facendo tutti gli aggiustamenti fiscali, e cioè rendendo lorde le spese ovunque, le differenze di spesa da “Stato sociale” sono meno marcate. La discrepanza fra spese e risultati è minore, e la spesa da “Stato sociale” supera agevolmente il 20% nei Paesi che spendono meno. In più, in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, l’assenza o la minore partecipazione dello Stato a una serie di voci della spesa, viene in parte compensata dalle charity private, rendendo il conto ancora più omogeneo. L’analisi degli aggiustamenti si trova nel succitato libro di Tanzi, al capitolo 12.

Tutti i Paesi spendono all’incirca lo stesso ammontare di denaro per lo “Stato minimo” – dal 15 al 20 per cento del PIL – e non spendono, fatti gli aggiustamenti, cifre troppo diverse – dal 20 al 30 per cento del PIL – per lo “Stato sociale”.

Qual è la soglia critica, quella oltre la quale, la spesa dello “Stato Sociale” ha una produttività prima decrescente e poi nulla? Un modo per fare i conti – seppur non troppo preciso – potrebbe essere quello di mettere in rapporto la spesa pubblica con un indice che misura la qualità della vita – lo Human Development Index (HDI). Fatti i conti sui paesi avanzati, li si trova nel capitolo 11 del libro di Vito Tanzi, viene fuori che l’indice cresce (con un ritmo decrescente) al crescere della spesa pubblica, e da un certo punto in poi si ferma. Si ferma quando la spesa pubblica complessiva ai avvicina al 40% del PIL.

Seconda conclusione, la spesa pubblica è composta da quella tradizionale (polizia, esercito, magistratura) e da quella sociale (istruzione, sanità, pensioni). In media nei Paesi avanzati la prima corrisponde al 15% del PIL circa, la seconda al 20% circa. Per un totale del 35 per cento. Oltre il 35% non si osserva un miglioramento della qualità della vita. L’Italia – al netto degli oneri del debito pubblico – spende circa il 40 per cento. Dunque avanza un 5% di taglio alla spesa.

* direttore della Lettera economica del Centro Einaudi. 

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