“Roe contro Wade”, la sentenza sull’aborto che ha cambiato l’America

“Roe contro Wade”, la sentenza sull’aborto che ha cambiato l’America

Si chiamava Norma McCorvey e lavorava come cameriera in un bar. Era bisessuale. Era alcolizzata e tossicodipendente. Nel 1971 si era rivolta al Tribunale di Dallas sostenendo di essere rimasta incinta a seguito di uno stupro: aveva chiesto di essere autorizzata ad abortire, nonostante la legge del Texas vietasse l’aborto sanzionandolo come un crimine.
Nacque così la mitica causa “Roe contro Wade”, che esattamente quarant’anni fa, il 22 gennaio del 1973, si concluse con quella che ancora oggi rimane la più controversa sentenza mai pronunciata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti – tant’è che non solo oggi per il quarantennale, ma ogni anno nel giorno dell’anniversario, per quarant’anni il grande plateatico davanti al palazzo neoclassico, ove la Corte ha sede, è stato teatro di pacifiche ma accese manifestazioni, sia a favore che contro quella storica decisione.

“Roe” sta per “Jane Roe”, lo pseudonimo usato in America per garantire l’anonimato alla donna durante un processo (in Italia i giuristi potrebbero usare “Tizia”, ma i giornalisti non sarebbero tenuti ad altrettanta discrezione). “Jane”, ossia Norma, molti anni dopo avrebbe confessato di aver in realtà partorito e dato la bimba in adozione (cosa che aveva già fatto altre due volte in precedenza), e di aver mentito al Tribunale su suggerimento del suo giovane avvocato, Sarah Weddington.

Sarah era un’appassionata militante pro choice: lo era divenuta avendo a propria volta vissuto in prima persona il trauma di un aborto clandestino. Volle “creare il caso” anche a costo di ricorrere a quella grave forzatura (ironia della sorte, nel 1995 la signora McCorvey si sarebbe trasformata in una “cristiana rinata” e sarebbe divenuta un’attivista del movimento pro life).

“Wade”, la controparte formale nel processo, era Henry Wade, il procuratore distrettuale della contea di Dallas che si trovò a rappresentare lo Stato del Texas non solo in primo grado, vincendo, ma anche nel conseguente appello davanti alla Corte Suprema (il vero fine per cui la Weddington aveva imbastito la causa). Curiosamente, Wade faceva così la sua seconda comparsata nella storia: nel 1963 era stato lui a rappresentare l’accusa nel primo processo per l’assassinio di John Kennedy (in cui l’imputato non era l’assassino del presidente, Lee Oswald, bensì quel Jack Ruby che due giorni dopo aveva a sua volta assassinato l’assassino).

Non aveva mai perso neanche una causa, Wade: quella intentata da “Jane Roe” fu la prima. Il 22 gennaio 1973 la Corte Suprema, con una maggioranza di 7 a 2, decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava l’aborto. La donna, scrissero i giudici, ha un diritto costituzionale ad interrompere la gravidanza: ha diritto ad abortire “per qualsiasi ragione” per tutto il primo semestre di gravidanza, mentre negli ultimi tre mesi solo “per ragioni di salute”. 

Quello stesso giorno, contemporaneamente a “Roe contro Wade”, la Corte Suprema decise anche il caso gemello “Doe contro Bolton”, stabilendo che nel verificare le “ragioni di salute” che giustificavano l’aborto, il medico avrebbe dovuto considerare rilevanti non solo le questioni attinenti la salute in senso stretto, ma anche tutti gli altri fattori rilevanti per il benessere della paziente, inclusi quelli “emozionali, psicologici, familiari”.

La motivazione della sentenza, alquanto “creativa”, era ricalcata su quella con la quale la Corte nel 1965, aveva deciso il caso “Grisvold contro Connecticut” decretando l’incostituzionalità delle leggi che vietavano i metodi anticoncezionali. In quel caso la Corte aveva affermato l’esistenza di un diritto costituzionale “alla privacy”, cioè alla non intrusione dello Stato nelle faccende più intime e private dei cittadini, desumibile – con buona dose di fantasia esegetica – dalla due process clause sancita dal quattordicesimo emendamento della Costituzione (“nessuno Stato priverà alcuna persona della vita o della libertà o della proprietà se non in seguito ad un regolare processo secondo diritto”).

“Roe contro Wade” cambiò la società americana; e lo fece di punto in bianco, con un colpo d’accetta. Fino ad allora l’interruzione di gravidanza negli USA era regolata non a livello federale, ma dalla legislazione dei singoli Stati: nella maggioranza era vietata tout court, o consentita a condizioni molto restrittive. Da quel momento in poi, invece, la “libertà di abortire” diventava improvvisamente un diritto costituzionale, inviolabile e tendenzialmente collocato fuori dal campo d’azione dei legislatori democraticamente eletti (incluso quello federale). Anche per questo, quella decisione non sarebbe mai stata del tutto metabolizzata.

La decisione posta alla base di “Roe contro Wade” si fonda sull’assunto che fino al compimento dei sei mesi di gravidanza la questione dell’aborto non vede contrapposte due persone, perché il feto non può essere tutelato come persona finché non è “vitale” (“viable”), ossia capace di sopravvivere fuori dal grembo materno: fino ad allora, sta alla madre scegliere liberamente se portare o no a termine la sua gestazione.

Venne così introdotta negli USA una facoltà di abortire di gran lunga più ampia di quella sancita di lì a cinque anni in Italia, dove l’applicazione che si è data alla legge 194 ammette l’aborto senza limitazioni solo nei primi tre mesi di gravidanza. Nel secondo trimestre, la legge italiana consente solo l’aborto giustificato dal fatto che la gravidanza stessa o il parto mettano a repentaglio la salute della donna, oppure dal fatto che siano pronosticabili “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”.

Nel regime americano creato da “Roe contro Wade”, invece, l’unico distinguo tra il primo e il secondo trimestre è che nel primo le modalità dell’aborto vanno liberamente determinate dalla donna e dal suo medico, mentre nel secondo trimestre “lo Stato, nel promuovere il suo interesse alla salute della madre, può, se vuole, regolamentare le procedure abortive in termini ragionevolmente correlati alla salute della donna”. Il legislatore americano, quindi, può al massimo regolamentare il “come”, la scelta di quale tecnica abortiva adottare; e comunque solo per il secondo trimestre, e solo nell’interesse della donna stessa, non del feto (di fatto vige ampia libertà di ricorso a tutte le tecniche, incluso l’aborto chimico tramite la pillola RU486).

Da quarant’anni, su “Roe contro Wade” non si ragiona: senza se e senza ma, è dogma indiscutibile per la sinistra liberal, e mostro da abbattere per i conservatori. Qualche anno fa, l’Economist notò come il tema dell’aborto sia al centro di uno dei principali paradossi della politica americana: la gran maggioranza degli elettori repubblicani è generalmente ostile all’intervento statale nella vita del cittadino, ma vorrebbe che lo Stato intervenisse in modo molto più consistente e più severo nel limitare la facoltà di abortire; la gran parte dei democratici, per contro, è favorevole su quasi tutto il resto all’intervento pubblico, ma su questo tema difende “senza se e senza ma” la libertà di scelta individuale della donna.

In realtà la questione è meno apocalittica di come l’opinione pubblica americana è abituata a considerarla. Quand’anche la Corte Suprema adottasse un nuovo orientamento giurisprudenziale che liquidasse quello introdotto con “Roe contro Wade”, l’effetto non sarebbe la automatica proibizione dell’aborto su tutto il territorio nazionale, bensì la restituzione ai parlamenti dei singoli Stati, ed anche del parlamento federale di Washington, della competenza a legiferare sull’argomento.

È vero che se quel precedente venisse smentito in modo netto, l’indomani potrebbero tornare automaticamente in vigore le preesistenti legislazioni antiabortiste di alcuni Stati che con “Roe contro Wade” vennero dichiarate incostituzionali; in particolare, in sette Stati (Arkansas, Louisiana, Michigan, Oklahoma, South Dakota, Texas e Wisconsin) l’aborto tornerebbe lì per lì ad essere vietato senza nemmeno eccezioni per la salute della donna, e solo in quattro Stati rimarrebbe legale “on demand” (senza condizioni) nei primi mesi di gravidanza. Ma è pur vero che in breve tempo la parola tornerebbe ai legislatori, ai rappresentanti del popolo democraticamente eletti, e la normativa potrebbe essere adattata alla sensibilità e alla mentalità degli elettori del Ventunesimo secolo.

Nelle aule di tribunale il precedente di “Roe” non venne rimesso seriamente in discussione per un ventennio: fino al caso “Planned Parenthood contro Casey” del 1992. Bob Casey era il governatore democratico della Pennsylvania, un antiabortista al quale per tale ragione quello stesso anno fu impedito di tenere un discorso alla convention del partito a Filadelfia in cui Bill Clinton riceveva l’investitura a candidato per la Casa Bianca (è anche il padre del senatore democratico Bob Casey Junior, il quale, anche lui pro-life come il papà, alle elezioni di medio termine del novembre 2006 apodestò dal seggio senatoriale il repubblicano ultrareligioso Rick Santorum: una tenzone tra un antiabortista di destra e uno di sinistra).

La Planned Parenthood, che è il principale network di cliniche per gli aborti del Paese ma anche la principale lobby pro-choice, riuscì a sottoporre al giudizio della Corte Suprema la legge della Pennsylvania, voluta per l’appunto dal governatore Casey, che stabiliva che alla donna che chiedeva di abortire potesse essere accordata la relativa facoltà solo a condizione che ne avesse dato notizia al marito, nonché ai genitori se minorenne, e che attendesse un intervallo di 24 ore sottoponendosi ad una seduta di consenso informato. I giudici di Washington ritennero che l’apposizione di quei “paletti” non fosse di per sé illegittima, perché “non sempre le leggi che rendono più difficile l’esercizio di un diritto ne comportano, per ciò stesso, la violazione”, mentre “soltanto quando la legge impone un limite eccessivo (“undue burden”) alla capacità di scelta della donna, allora lo Stato viola il nucleo della libertà protetta dalla due process clause”.

E quindi sì alla condizione del previo avviso ai genitori della minore, così come a quella dell’attesa delle 24 ore e della seduta di consenso informato (che oggi è prescritta dalla legislazione di 28 Stati), ma no all’obbligo di comunicare l’intenzione di abortire al marito. Ma quel che più conta è che la Corte confermò esplicitamente il precedente di “Roe contro Wade” come stella polare di ogni successiva decisione in materia, spingendosi ad affermare che grazie a quella sentenza “la capacità delle donne di prendere parte alla vita economica e sociale è stata agevolata dalla loro capacità di controllare la loro vita riproduttiva”.

L’ultimo episodio della saga è del 18 aprile del 2007, quando la Corte Suprema “salvò” la legge federale voluta da Bush che vieta il “partial birth abortion”, l’aborto tardivo tramite nascita parziale. In questo caso venne messa in discussione la libertà della donna di scegliere liberamente ed incondizionatamente se abortire fino al sesto mese. Motivo del contendere era solo la tecnica abortiva che serviva ad aggirare il divieto di abortire dopo lo scadere di quel termine. Il feto veniva girato in posizione podalica, poi veniva estratto tutto il corpicino tranne la testa, e a quel punto gli veniva forata la nuca e gli si aspirava il cervello con un catetere; cosicché il bimbo veniva partorito con il cranio svuotato.

In questo modo, quando usciva del tutto dal grembo materno non era più “vitale”, per cui formalmente il limite sancito da “Roe contro Wade” figurava essere stato rispettato. I “pro-choice” sostenevano che in quel modo il feto moriva comunque senza soffrire, perché fino alla ventinovesima settimana i collegamenti tra la corteccia celebrale e l’ipotalamo, che consentono la percezione del dolore, non sono ancora attivi. In Italia la legge 194 non consente questo metodo abortivo, perché prevede che comunque dopo il sesto mese non si possa interrompere una gravidanza senza predisporre ogni cura per la salvaguardia del bambino: persino se la madre è in «grave pericolo di vita» non si può praticare deliberatamente un aborto, ma solo indurre il parto adottando «ogni misura idonea» per salvare la vita del figlio.

Un tempo la promessa di nominare alla Corte Suprema giudici favorevoli o contrari a “Roe” era uno dei cavalli di battaglia di un candidato alla Casa Bianca; Ma negli ultimi anni la “guerra culturale” per antonomasia è passata sempre più in secondo piano.
Durante le elezioni presidenziali del 2008, il tema fu quasi assente. Ad agosto, quando la campagna elettorale entrava nel vivo, il celebre pastore evangelico Rick Warren intervistò simmetricamente in diretta tv entrambi i candidati su temi eticamente sensibili, e ad entrambi chiese di pronunciarsi su quale sia il momento in cui un bambino diviene titolare di diritti umani. Il candidato repubblicano John McCain, pur non essendosi mai distinto per bigotteria né per zelo religioso, rispose a botta sicura: “al momento del concepimento”.

Barack Obama era solito ostentare la sua religiosità ben più dell’avversario repubblicano, ma in quel frangente cercò di glissare con una battuta agrodolce: “che Lei la metta sotto una prospettiva teologica, o sotto una prospettiva scientifica, comunque una risposta precisa a questa domanda rimane, per così dire, al di sopra delle mie mansioni”. Dopodiché rese la “professione di fede” dalla quale nessun democratico ortodosso può esimersi – “in termini generali io sono pro-choice, e credo in “Roe contro Wade” – e spiegò che come politico preferiva occuparsi di come si può ridurre il numero degli aborti, ferma restando la libertà di scelta eccetera eccetera. Si trattò di una parentesi piuttosto sonnolenta, in una campagna elettorale incentrata su tutt’altro.

Pochissima attenzione venne dedicata anche al fatto che Obama, poco prima dell’inizio delle primarie, intervenendo ad un convegno della Planned Parenthood aveva dichiarato che, se eletto, il suo primo atto come Presidente sarebbe stato quello di firmare il “Freedom of Choice Act”. Si tratta di un disegno di legge presentato nel 2003 dal deputato democratico di New York Jerold Nadler ma mai messo ai voti, che propone di codificare, cioè di trasformare in legge, il principio coniato da “Roe contro Wade” nella sua versione più “pura”, abrogando cioé tutte le restrizioni federali alla libertà di abortire sino ad oggi “ammesse” dalla giurisprudenza della Corte Suprema – ivi incluso lo stesso divieto di partial-birth abortion.

Il 22 gennaio 2009, nel trentaseiesimo anniversario di “Roe”, il neo-eletto (anche con il 52% del voto cattolico) presidente Obama, insediatosi da poche ore alla Casa Bianca con un rito religioso officiato anche dal reverendo Warren, firmò un ordine esecutivo (insieme a una dozzina di altri, tra i quali quello tanto applaudito che decretò la chiusura entro un anno del carcere di Guantanamo, destinato a rimanere lettera morta), con il quale abrogò il divieto – introdotto da Reagan un quarto di secolo prima, poi revocato da Clinton, e infine ripristinato da Bush – di finanziare con fondi federali le organizzazioni non governative che promuovono l’aborto all’estero (la cosiddetta “Mexico City Policy”). Nessun accenno, invece, al “Freedom of Choice Act”, che non è più stato nemmeno ripresentato. Pochi mesi dopo, in una conferenza stampa primaverile, il presidente avrebbe dichiarato che quella legge non rientrava fra le sue “priorità legislative”.

Ora Obama – che durante il suo primo mandato ha nominato alla Corte Suprema due donne, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan, che vengono considerate due prochoice ma non hanno mai palesato grande attivismo sul tema – è stato rieletto dopo una campagna elettorale nella quale il tema è stato, se possibile, persino più assente di quanto lo era stato in quella del 2008. Di fatto si dà ormai per scontato che la questione a livello federale sia fossilizzata nei principi di “Roe’, e che solo nella legislazione dei singoli Stati ci sia ancora una partita aperta.

Secondo uno studio del Guttmacher Institute, una associazione prochoice, nei 50 Stati solo nel 2011 sono state approvate ben 91 leggi restrittive rispetto alla facoltà di abortire. Nella maggior parte dei casi si tratta dell’esclusione dall’accesso ai fondi pubblici previsti da ObamaCare per le assicurazioni sanitarie che includano l’aborto tra le pratiche mediche rimborsabili. Ma quando lo scorso 6 novembre questo tipo di provvedimento è stato messo ai voti con referendum in Florida, è stato bocciato dal 55% degli elettori – quasi il 5% in più rispetto a quelli che hanno votato per la rielezione di Obama. 

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