Il cambiamento è prima di tutto di “narrazione”, come ormai si usa dire. Qualcuno potrebbe affermare del resto che ormai in politica ed economia tutto è narrazione, sia la cara vecchia propaganda, sia, in modo più sottile, il modo in cui si discute di argomenti anche apparentemente piuttosto asettici.
È il caso del deficit pubblico. Vi è stato un lungo periodo in cui la lotta al deficit è stato un argomento “rivoluzionario”, sventolato proprio da quelle forze che combattevano l’establishment, colpevole di avere portato l’Italia (siamo ai primi anni ‘90) all’ennesima svalutazione e a un debito che non smetteva di crescere.
Farà un po’ strano ricordarlo ora, ma tra gli aedi della riduzione della spesa e del deficit c’era una giovane Lega Nord, che allora non rappresentava i pensionati, ma piccoli imprenditori ed artigiani, e si opponeva alla DC e al PSI spendaccioni.
Poi, per lunghi anni, fu una questione di competizione tra centrodestra e centrosinistra, a chi poteva promettere una riduzione del deficit e di quel mostro che da esso deriva: il debito pubblico. Le contestazioni a questo consensus venivano solo da frange radicali o da nostalgici della Prima Repubblica, che non si rassegnavano a seppellire la versione estrema di keynesismo che per decenni aveva imperversato nel Paese. I parametri di Maastricht, del 1992, non erano realmente messi in dubbio, non apertamente.
Piuttosto, con buona dose di ipocrisia, erano i comportamenti che non tenevano conto delle intenzioni dichiarate. Negli anni 2000 i governi Berlusconi fino al 2010 fecero pochissimo, o solo lo stretto indispensabile, approfittando del calo degli interessi e di tasse una tantum, per rimanere sotto il famoso 3%.
È solo in questi ultimi anni che in realtà è diventato “di moda” scagliarsi contro la riduzione del deficit, visto come un’ingiusta imposizione dell’”Europa delle banche” invece che un alleggerimento di un onere per i nostri discendenti, ma la novità degli ultimi mesi, arrivata un po’ a sorpresa, è che è stato anche il campo in teoria più europeista e allergico ai populismo, quello governativo, ad allinearsi, a modo suo, a questa narrazione.
In gran parte si tratta di dare una pseudo-motivazione politica ed economica, una narrazione appunto, a un comportamento di fatto. Negli ultimi 7 anni l’Italia è stata allo stesso tempo tra i Paesi con un deficit/PIL inferiore e però anche tra quelli che hanno effettuato meno aggiustamenti per fare scendere questo rapporto, perlomeno tra gli Stati che l’avevano superiore al 3%.
Di fatto oggi stiamo perdendo uno dei pochissimi punti di vantaggio che potevamo vantare rispetto agli altri Paesi, l’altro è l’avanzo primario che deteniamo dal 1991. I dati stanno ormai convergendo ed è probabile che altri Stati possano seguire la strada intrapresa dall’Irlanda e superarci.
Questa scelta, da lato italiano, perché almeno negli ultimi due anni di scelta si tratta, non può che sollevare interrogativi sulla loro convenienza per il Paese.
Nell’area euro sembra che i Paesi che hanno avuto i maggiori aumenti dei tassi di crescita durante la ripresa dell’economia sembrano essere stati quelli che hanno compiuto i più grandi sforzi in riduzione del deficit, in particolare con il taglio delle spese
Basta guardare le righe relative alla riduzione della spesa pubblica e della crescita reale del PIL nel prospetto dei conti degli ultimi country report della Commissione Europea
Irlanda
Spagna
Portogallo
In questi Stati, che erano quelli in condizioni più gravi, escludendo la Grecia, il miglioramento nella crescita è venuta dopo, e non prima, gli aggiustamenti.
Il calo del deficit/PIL quindi sembra essere più correlato a tagli e risparmi che solo all’aumento del denominatore.
In effetti due Paesi che hanno molto in comune come Italia e Francia vedono una correlazione tra la timidezza nel ridurre le spese e il deficit e le deludenti performances del PIL.
Italia
Francia
Al di là della convenienza politica chiara, dal punto di vista economico questa scelta di combattere un’austerità che non vi è mai stata dalle nostre parti non sembra giovarci molto.
Anche perché vi è poi la questione della fiducia di investitori ed operatori economici internazionali: non di burocrati, ma di gestori di fondi pensione, imprenditori di aziende europee e non solo, insomma, che vedono un Paese che rimane costantemente a fondo classifica, non solo nella crescita, nel tasso di occupazione, nella produttività, ma anche nello sforzo e nella volontà per ridurre il peso del deficit e, di conseguenza, del debito, elefante nella stanza della nostra economia, la cui mole fingiamo di non vedere, ma che non viene dimenticata laddove nel mondo si prendono decisioni di investimento.