Grillo, Renzi e poi di nuovo Berlusconi: storia di una legislatura in cui non è cambiato nulla

Storia di questi ultimi cinque anni in cui doveva cambiare tutto - nomi, persone, politiche - e dove invece alla fine ci si ritrovare al punto di partenza. Con partiti vuoti e stremati e una campagna elettorale che si preavvisa bruttissima

Ora che è partito il conto alla rovescia per lo scioglimento delle Camere suscitano quasi tenerezza le parole d’ordine alle quali ci siamo tutti appassionati – rottamazione, Partito della Nazione, lotta ai populismi – immaginando solo pochi anni fa, tra il 2013 e il 2015, un mondo nuovo in cui la politica italiana si sarebbe organizzata intorno all’asse del Pd e all’alternativa semplice “o con lui o contro di lui”. Doveva essere la prima legislatura di un nuovo Ventennio, il ventennio renziano. Era cominciata appunto così, col blog di Beppe Grillo che affiancava la foto dell’allora premier a quella di Silvio Berlusconi e Benito Mussolini e preconizzava un nuovo ciclo storico della politica italiana. La ricorderemo, al contrario, come un ulteriore coda della infinita transizione nazionale. Non per questo meno memorabile, e interessante.

2013: Un anno in una frase, anzi in un hastag: #EnricoStaiSereno. Lo lancia Matteo Renzi nel salotto televisivo di Daria Bignardi. In realtà non succede nel 2013 ma a inizio 2014, il 17 gennaio per la precisione, ma quelle tre parole seppelliscono insieme al governo Letta anche tutto l’anno precedente, del quale infatti nessuno si ricorda più. Uno degli effetti collaterali dell’avvento del renzismo è infatti lo sbiadire nel nulla di ogni evento precedente, che al raffronto si fa pallido, esangue, irrilevante. #EnricoStaiSereno è il primo effetto del congresso Pd che ha incoronato premier il giovane ex sindaco di Firenze. Un assaggio della nuova dialettica del Nazareno, che abbandona il noioso pensiero complesso della scuola Frattocchie per strutturarsi a misura di Twitter. Un mondo in 140 caratteri. Se al vecchio Pci per la radiazione dei ribelli servivano comitati centrali di tre giorni, adesso basta una parola. Gufo. Professorone. Voilà, colpiti e affondati. La cosa piace tantissimo. Ne parlano bene tutti, con articoli encomiastici ai limiti dell’imbarazzante. Persino i suoi palesi limiti – “confonde Churchill con De Gaulle”, annota il Corriere – sono raccontati con toni deliziati. Uno così durerà per sempre.

2014: Un anno in un numero, il numero 40. È la percentuale che raggiunge il Pd alle Europee, oltre due milioni e mezzo di voti. Nessun sondaggio l’ha prevista. Il Cavaliere è ko, fuori dal Parlamento per intervenuta condanna. I grillini acciaccati, quattro punti sotto alle Politiche di un anno prima. Renzi diventa la star coccolata da tutta Europa: quello che ferma i populismi. Il 2 luglio aprirà a Strasburgo il semestre di presidenza italiana con il famoso “discorso di Telemaco”: una cosa sul rapporto figli/padri che, riletta oggi dopo le note traversie affaristiche e bancarie dei super-babbi del renzismo, suscita qualche perplessità. All’epoca entusiasmò. Se ne individuò il suggeritore nello psicoanalista Massimo Recalcati che spiegò: «Telemaco è la figura del giusto erede» che leva di mezzo i vari Bersani, D’Alema, Prodi in quanto il dono più prezioso per un genitore «non è guidare il processo dell’eredità», che altrimenti «scade in clonazione», ma sparire. Applausi (allora non sapevamo che dei padri, in politica, non ti liberi mai).

Doveva essere la prima legislatura di un nuovo Ventennio, il ventennio renziano. Era cominciata appunto così, col blog di Beppe Grillo che affiancava la foto dell’allora premier a quella di Silvio Berlusconi e Benito Mussolini e preconizzava un nuovo ciclo storico della politica italiana. La ricorderemo, al contrario, come un ulteriore coda della infinita transizione nazionale. Non per questo meno memorabile, e interessante

2015: Un anno in una sentenza. Non se la ricorda più nessuno, all’epoca sembrò trascurabile. Si era alle prese con la crisi greca, con gli attentati di Parigi, e in Italia con i decreti attuativi del Jobs Act, eppure quella sentenza piccola piccola – l’assoluzione definitiva di Silvio Berlusconi dal caso Ruby/Bunga Bunga – vista oggi merita una citazione speciale. È lì che il Cavaliere, apparentemente fuori gioco, fuori dal governo, fuori da tutto, comincia a pensare di potersi prendere la rivincita. Ritira il suo appoggio alla legge elettorale (l’Italicum) e ricomincia a giocare in proprio. Funzionerà. Oggi, due anni dopo, ci sorbiamo infinite analisi politiche, psicologiche, persino astrologiche sul ritorno del rottamato, oltreché le solite tormentate autoflagellazioni da sinistra – colpa nostra! Abbiamo lasciato spazi e lui li riempie! – senza che nessuno citi il dato più semplice: un uomo dalle risorse economiche illimitate, in un Paese piuttosto sudamericano come l’Italia, può giocare al Generalissimo finchè gli aggrada.

2016: un anno di una foto, la foto di Virginia Raggi e Chiara Appendino. Due psicodrammi paralleli per il Pd, che a Roma ha bruciato Ignazio Marino e a Torino non ha saputo sostenere Piero Fassino, e però c’è ancora una certa timidezza nel raccontare la sconfitta del partito di Renzi e le analisi volano basse: le maledette periferie, i maledetti poveri, i maledetti astensionisti. Non è solo un problema italiano: in Francia il presidente Hollande è trafitto dalla pubblicazione di un sms in cui definisce “gli sdentati” i sottoproletari presenti a un suo comizio. La sinistra snob, la sinistra fighetta, la sinistra in camicia bianca non piace più. Alle primarie USA l’estremista Bernie Sanders rischia di vincere la nomination democratica contro Hillary Clinton. In Italia qualcuno rompe gli indugi: Massimo D’Alema si intesta da sinistra il “No” al referendum su cui Renzi ha scommesso tutto aprendo un duello politico che passerà alla storia come quelli tra Crispi e Giolitti, Turati e Ferri, Moro e Fanfani (fatte le debite proporzioni).

2017: inutile parlarne, è storia recente. Un anno di riscaldamento, con i giocatori a palleggiare in campo in attesa del fischio di inizio, titolari e riserve, ciascuno impegnato a saggiare il terreno, gli alleati, gli avversari. Una legge elettorale, due sinistre, due destre e i Cinque Stelle per la prima volta (forse) alleabili hanno del tutto scompaginato le prospettive di inizio legislatura – un progressivo approdo all’alleanza Renzi/Cav in nome della diga anti-grillina – e tutti dovranno inventarsi un nuovo schema. È tornata la Prima Repubblica, scrivono in tanti, ma non è vero. Mai come adesso i partiti sembrano fuori combattimento, scatole vuote, e lo scontro si preannuncia tra personalità, tra leader, tra biografie, e soprattutto tra le rispettive debolezze. Non sarà un bello spettacolo, il caso Boschi/Etruria è solo un assaggio.

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