“Chiamami con il tuo nome”, ecco perché Guadagnino è lontano anni luce dalla pataccate di Ozpetek

Con il bellissimo “Call me by your name” - in italiano “Chiamami con il tuo nome” - ha ottenuto 4 nomination agli Oscar tra cui anche quella per il Miglior Film, eppure il 99 per cento degli italiani non ha mai sentito il suo nome. Ma forse è giusto così, ci meritiamo la nostra mediocrità

C’è qualcosa di bellissimo e insieme di disperante nel fatto che Call me by your name, l’ultimo film del regista italiano Luca Guadagnino, si sia portato a casa quattro nomination agli Oscar 2018, tra cui anche il più prestigioso, quel Miglior film che non vedeva un italiano in gara da La vita è bella di Benigni. Bellissimo, perché son cose che solleticano sempre il nostro orgoglio, disperante, invece, perché Guadagnino, in Italia, non se lo fila praticamente nessuno.

Chissà come si spiegano questa storia all’estero. Facile che non se la spieghi nessuno visto che per nostra fortuna, probabilmente, non riescono a immaginare quanto questo paese di cricche, consorterie e famigliole sia capace di essere subdolo e meschino di fronte alle sue eccellenze, sopratutto quando non hanno nessuna fretta di correre a baciare gli anelli giusti.

«Io come regista in Italia non esisto», diceva giusto qualche mese fa in una intervista rilasciata a Arianna Finois di Repubblica, «eppure i miei film producono un circolo virtuoso: attirano fondi dall’estero ma portano investimento nel territorio nazionale e vanno in giro per il mondo come un prodotto nazionale». Se togliamo probabilmente l’arte di stare simpatico alle gente che conta dell’industria cinematografica italiana, quella che non gli è stata per niente utile quando cercava finanziamenti per Call me by your name o per il remake di Suspiria, di Dario Argento, a cui sta finendo di lavorare proprio ora, di virtù Guadagnino ne ha parecchie e non solo da regista, ma anche da produttore.

Sempre a quanto dice nell’intervista a Repubblica, di Call me by your name, che è ambientato interamente nelle campagne di Crema all’inizio degli anni Ottanta, lui in principio doveva occuparsi “semplicemente” della produzione in Italia. Glielo avevano chiesto gli americani e lui ci si era messo e aveva proposto la regia a Gabriele Muccino, che non accettò. E così è finito a farla lui la regia.

E il risultato? È una piccola perla fatta di atmosfere italiane di una provincia perduta (una lunga estate a scorrimento lento, di quelle che ci poteva permettere una volta); interpretazioni impressionanti, in primis quelle di Arnie Hammer e del giovane Timothée Chalamet (candidato all’Oscar per il miglior attore protagonista); di delicatezza e di cura della narrazione che in alcuni episodi scabrosi non erano per niente scontate; di una colonna sonora che riesce ad essere nello stesso tempo lirica ed evocativa quando parte a mo’ di didascalia esterna con la voce di Sufjan Stevens, ma anche coesa e funzionale alla narrativa, quando invece resta interna al racconto e si fa classica, suonata dal giovane Elio (Timothée Chalamet).

Siamo lontani anni luce dalle pataccate degli Ozpetek, dei Tornatore, dei Castellitto. Siamo lontani anni luce da quel cinema italiano che, quando ha l’occasione di lavorare con grandi produzioni americane — come l’ultimo film di Ridley Scott — non riesce a fare di meglio che piazzare un Vaporidis nella Sila calabrese a fare il bandito incoppolato. Ma purtroppo, dopo più di ore di spettacolo, quando dal cinema si esce e si ritorna fuori a veder le stelle, vien da pensare che siamo anche anni luce di distanza dall’Italia reale, quella che nel 2018 rischia di consegnare il paese a partiti che soffiano sulla paura del diverso, sull’omofobia, sulla cialtronaggine, sull’ignoranza delle panze piuttosto che sulla importanza delle idee.

E quindi, a conti fatti, è giusto che noi, i suoi potenziali primi spettatori, non abbiamo mai avuto nessuna considerazione per questo strano regista; è giusto che l’abbiamo bollato a vita dopo il film su Melissa P. Siamo un paese piccolo e sempre più gretto. Abbiamo paura di essere invasi dai popoli migranti e siamo persino riusciti a ritirare fuori dal terriccio sporco di sangue la nostra cara vecchia ascia di guerra della Razza Italica, una roba da vacche pezzate o da medioevo. È giusto che le glorie Luca Guadagnino se le coltivi altrove, perché noi ci meritiamo proprio i Castellitto, i Tornatore e gli Ozpetek, ossia, la mediocrità.

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