Nella ventinovesima prosa dello Spleen di Parigi, Charles Baudelaire mette in bocca a un predicatore una frase geniale: «Miei cari fratelli, non dimenticatevi mai, quando sentirete vantare il progresso dei lumi, che la beffa più geniale del diavolo e avervi convinto che lui non esiste». È il 1869, forse senza saperlo nelle frasi di Baudelaire riecheggiano versi che Leopardi scrisse una ventina d’anni prima in una delle sue ultime poesie, e, mentre l’Europa sta vivendo la seconda rivoluzione industriale, a qualche centinaio di chilometri a nord di Parigi Karl Marx ha da poco finito di scrivere Il Capitale.
L’intuizione di Baudelaire, la visione di Leopardi, l’analisi di Karl Marx, all’epoca erano puntini disallineati, ma lo spettro che in modi diversi avevano intravisto era lo stesso. Forse dei tre ci era arrivato solo Marx, ma quella che si stava apparecchiando in Europa era la situazione perfetta per la conquista dell’egemonia da parte del capitalismo, che infatti, nel giro di un secolo circa, da filosofia economica ed etica si sarebbe trasformata in ideologia, prima rampante, poi dominante e infine totalmente egemone.
Facciamo un salto carpiato e arriviamo al 2009, quando il teorico radicale inglese Mark Fisher, casualmente nato a pochi chilometri da dove Marx scrisse il Capitale e a un secolo esatto dall’intuizione di Baudelaire, pubblica Realismo Capitalista, un pamphlet che da poche settimane è disponibile in traduzione italiana nelle nostre librerie, tradotto da Valerio Mattioli per le edizioni Nero. La sua tesi di partenza somiglia all’intuizione di Baudelaire, elevata alla Leopardi e ripiena di Marx e, parafrasando proprio la frase del francese — che se vi suona familiare è tutta colpa di Kevin Spacey e dei Soliti sospetti — suonerebbe così: la beffa più grande del capitalismo è stata convincerci che non esiste l’alternativa.
Nelle 150 pagine di questo libretto densissimo c’è l’esatta diagnosi dell’abisso in cui siamo finiti, ovvero l’ultimo e più drammatico stadio di un capitalismo che si è fatto strutturale e disumano, il punto di arrivo della contro lotta di classe reazionaria a cui abbiamo assistito per tutto il Novecento. Isolamento, depressione, burocratizzazione, dittatura della struttura e del capitale, instaurazione del presente come tempo unico, senza futuro e senza passato, come tempo del godimento fine a se stesso. Una autentica trappola di cui noi, donne e uomini occidentali del ventunesimo secolo, siamo i topi putativi.
Fisher dipinge un quadro fosco, deprimente, inquietante. A pensare che si è suicidato giusto un anno fa verrebbe da dare per scontato che fosse uno dei più grandi pessimisti dei nostri tempi, forse secondo soltanto a quel campione di nichilismo che è lo scrittore Thomas Ligotti. Eppure, proprio verso la fine del ritratto, quando idealmente davanti al lettore è più chiara la sagoma terrificante del nemico, Fisher riesce in un piccolo capolavoro di ottimismo e ci mette sul tavolo l’unica soluzione possibile a quel che sembra a tutti, da anni, uno scacco matto e disperatissimo.
Se fino ad oggi qualsiasi ipotetico attacco al capitalismo, infatti, si è spento prima ancora di essere teorizzato era perché le forze anticapitaliste si sono fatte mettere con le spalle al muro, si sono fatte sgonfiare gli idoli, desemantizzare gli slogan, rubare persino le battaglie, portandoci in un mexican standoff da cui non sembra esserci nessuna possibilità di uscita. Come si fa infatti a distruggere qualcosa che non ha confini, né alternative? Non si può, è un paradosso ed è su quello che ci siamo costruiti la prigione intellettuale di altissima sicurezza che, negli ultimi trent’anni almeno, ha permesso al capitalismo di arrivare a sentirsi invincibile e onnipotente.
Eppure non è esattamente così, e Fisher scavando nel botro lutulento dei nostri tempi ha trovato uno spiraglio: se il gigante ha un punto debole, questo è proprio la sua natura assolutista.
Per questo, scrive Fischer, non bisogna arrendersi a quella che oggi, ai nostri occhi, sembra una incontrovertibile evidenza. «Il fallimento delle precedenti forme di organizzazione politica anticapitalista non deve essere causa di disperazione», scrive Fisher. «La crisi è un’opportunità: ma va trattata come straordinaria sfida speculativa, come lo stimolo per un rinnovamento che non sia un ritorno», continua, e affonda: «Un anticapitalismo efficace deve essere un rivale del Capitale, non una reazione ad esso. Tornare alla territorialità precapitalista è impossibile. Al globalismo del Capitale, l’anticapitalismo deve opporsi ricorrendo al suo più puro, autentico universalismo».
Ma come si fa a sconfiggere un nemico così potente e immenso? «La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre degli effetti sproporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile». Per far collassare la tenda del circo, d’altronde, potrebbe bastare perfino la punta di uno spillo, no?