La guerra dei dazi di Donald Trump ci farà malissimo (ed è un pericolo per la democrazia)

Nord Corea, Cina, Unione Europea. The Donald fa saltare gli schiemi, i trattati, e negozia con i singoli paesi in modo spericolato. Salvini lo imita in piccolo. Ma è un gioco in cui l’Italia rischia davvero di farsi male

Brendan Smialowski / AFP

Prima “fuoco e furia” sul Nord Corea, poi un cordiale quanto storico incontro con Kim Jong-un, “l’uomo razzo”. Visita trionfale nella Città Proibita e barriere tariffarie contro i prodotti cinesi. Dazi su alluminio, acciaio, auto tedesche, ma anche un invito all’Unione europea di aprire “concrete trattative”.

Donald Trump ci è o ci fa? La sua è una tattica negoziale, da businessman che ama gli accordi faccia a faccia, con l’antica stretta di mano, lasciando i dettagli all’intendenza, oppure è solo un inarrivabile narcisista? Se lo chiedono da sponde diverse il New York Times e il Wall Street Journal, ma non trovano risposta. Intanto, il presidente americano ha già fatto saltare ogni modello multilaterale e ha rimesso in discussione anche le tradizionali regole della diplomazia, trovando numerosi imitatori.

La politica, quella interna come quella estera, gestita in modo personalistico si diffonde rapidamente. Prendiamo Matteo Salvini: il suo modo di governare è sempre più trumpiano; un tweet, una decisione personale, un fatto compiuto, dalla chiusura dei porti alle navi delle ong cariche di emigrati al blocco del riso cambogiano fino a rimettere in discussione l’accordo di libero scambio transatlantico. Il tutto, e questa è la vera novità, senza negoziare con altri paesi o senza attendere l’Unione europea (sul riso dall’estremo oriente è aperta una inchiesta a Bruxelles sollecitata dai paesi europei produttori con in testa l’Italia, la Francia e la Spagna).

L’ultimo numero dell’Economist mette in copertina i volti minacciosi di Orban, Erdogan, Duerte e Putin sotto il titolo: “Come gli uomini forti sovvertono la democrazia”. Non c’è Trump con i suoi seguaci, perché negli Stati Uniti, o in Europa occidentale, non siamo ancora in una “democrazia illiberale”, ma quella copertina è un monito per tutti. Perché le guerre commerciali nella storia hanno sempre preannunciato guerre politiche e militari.

Le guerre commerciali nella storia hanno sempre preannunciato guerre politiche e militari

Questa volta non si tratta di colpire solo prodotti tutto sommato marginali. Trump ha varato tariffe del 25% su una gamma di merci per 50 miliardi di dollari. A Pechino il Consiglio di stato ha deciso di rendere pan per focaccia, coinvolgendo beni per lo stesso ammontare. Il presidente americano ha replicato che in caso di rappresaglia è pronto a rilanciare. Già oggi sono interessati 659 tipi di beni per lo più prodotti energetici, agricoli e frutti di mare esportati in gran quantità, ma vengono danneggiate anche le auto elettriche e i suv. L’escalation è evidente se si pensa che ad aprile erano coinvolte 106 categorie. E, come abbiamo visto, non è finita qui. Anche l’Unione europea rischia di venire investita su scala più ampia, ben oltre l’acciaio e l’alluminio; il protezionismo è un morbo che si diffonde rapidamente e diventa presto una vera e propria epidemia.

Proviamo a capire se c’è una logica dietro questo comportamento apparentemente irrazionale. Una ipotesi è che Trump segua le regole del casinò (lui che ne ha costruiti così tanti): azzardo e bluff. Prendiamo la Nord Corea. Qui ha rilanciato al massimo come nel poker americano; quando ha visto che Kim non mollava, ha messo la Cina di fronte al dilemma: o fare da mediatore o subire una rappresaglia commerciale.

Finché non è Kim a spiazzare tutti: prima la cerimonia al 38esimo parallelo facendo intravvedere la possibilità di mettere davvero fine alla guerra con la Corea del sud, poi l’incontro con Trump a Singapore. Un evento che fa storia, anche se non è detto che sia davvero storico. Più tempo passa, infatti, più si capisce che dietro l’apparenza non c’è molto di concreto. Certo, i simboli contano e la prospettiva di una guerra s’allontana, nessuno può dire che già questo non sia un risultato importante, tuttavia la de-nuclearizzazione resta ancora un miraggio.

Xi Jinping, il terzo giocatore seduto al tavolo, si sente scavalcato, sospetta che Kim voglia approfittare per allentare i lacci che lo avvinghiano a Pechino e fanno da sempre di Pyongyang un regime ancor meno che satellite. Xi ha cercato di rendersi indispensabile, facendo leva sulla potenza economica del suo paese, e per accrescerla non ha guardato in faccia a nessuno. Con lo spionaggio industriale su vasta scala sta cercando di colmare almeno in parte il gap tecnologico con l’Occidente. Non solo: ha fatto capire chiaramente a Trump che il prezzo della sua mediazione con Kim era l’espansione della sua influenza in Estremo oriente, con l’obiettivo di raggiungere di nuovo quella egemonia che la Cina aveva fino alle guerre dell’oppio nella prima metà dell’Ottocento. È un prezzo che gli Stati Uniti non possono accettare. Così come non possono ritirarsi dalla Corea del sud, il pegno che Kim pretende in cambio della riduzione del suo arsenale atomico.

A questo giro di tavolo, vengono calate le nuove sanzioni contro la Cina. Attenzione, il braccio di ferro andava avanti da tempo e ha una sua autonomia. Ciò vale anche per il contenzioso multiplo con l’Unione europea. Ma il salto di qualità avviene quando Trump lega dazi e tariffe alla sicurezza nazionale, mettendosi persino contro i suoi alleati storici, dal Canada all’Europa, per far capire loro chi comanda. A quel punto, il commercio diventa esplicitamente un’arma politica. E lo è per tutti, per Xi, per Kim, per Angela Merkel, fino a Salvini. È qui il vulnus, è questo il pericolo. Non si tratta più di negoziare gli interessi della lobby dell’acciaio o di quella del riso e della mozzarella. Si tratta di evocare la reciprocità come cortina dietro la quale nascondere una sfida politica e, nel caso degli Stati Uniti e della Cina, anche militare.

Noi vendiamo soprattutto macchine, componenti industriali, farmaceutica. Ma nell’immaginario collettivo, eccitato e cavalcato dai protezionisti, siamo il paese della pizza margherita, proprio come per i peggiori cliché

Non solo commercio, dunque, è in gioco un conflitto tra due modelli: la società chiusa da una parte la società aperta dall’altra. Nella storia il libero scambio si è sempre sposato con pace e benessere, il protezionismo con regimi autoritari e depressione economica. Non c’è motivo che oggi non sia lo stesso. Ciò è particolarmente pericoloso per l’Italia, paese privo di risorse interne che non siano il lavoro (anche il capitale scarseggia) con 60 milioni di persone che vivono grazie ai commerci oltre frontiera.

Abbiamo accumulato un attivo con l’estero pari al 3 per cento del prodotto lordo, grosso modo doppio rispetto a quello cinese che tanto allarma i protezionisti. Le esportazioni lo scorso anno hanno superato i 450 miliardi di euro (e se continua così quest’anno saliranno oltre i 500 miliardi). Di queste, meno del 10% proviene dall’agroalimentare che, invece, sta diventando un casus belli. Noi vendiamo soprattutto macchine, componenti industriali, farmaceutica, insomma il meglio che possa offrire la manifattura. Ma nell’immaginario collettivo, eccitato e cavalcato dai protezionisti, siamo il paese della pizza margherita, proprio come per i peggiori cliché stranieri.

Davvero l’interesse nazionale si difende alzando le barriere richieste dalle lobby come la Coldiretti o la Confcommercio? Non solo i consumatori pagherebbero prezzi più elevati, ma i produttori di beni industriali, che sono la locomotiva del nostro sviluppo, verrebbero colpiti da prevedibili rappresaglie. La difesa di vocianti gruppi di pressione elargitori di voti, entra in contrasto con le esigenze di chi produce il meglio del pil, imprenditori e lavoratori. Sono chiari i costi e i benefici, o meglio sarebbero chiari se fossimo guidati dalla ragione.

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