Circa un anno fa, nell’ottobre del 2017, un articolo apparso sulle colonne del New Yorker fece imbestialire tutta l’Italia, o quasi. Lo aveva scritto la storica dell’arte Ruth Ben-Ghiat e si intitolava “Come mai ci sono ancora tutti quei monumenti fascisti in Italia”, ma sottintendeva un’altra domanda un po’ più scomoda: “Non è che voi italiani non avete ancora superato il vostro passato e avete ancora problemi con il fascismo?”.
La reazione fu immediata e molto significativa — ne avevo scritto proprio sulle pagine de Linkiesta — e, anche se all’epoca non lo abbiamo voluto ammettere, bastava quella reazione per capire che la risposta alla domanda sottintesa dall’articolo della storica dell’arte statunitense era: “Sì, abbiamo ancora un sacco di problemi irrisolti con il fascismo”.
Sono passati dodici mesi da allora. Nel frattempo abbiamo vissuto una tornata elettorale interlocutoria e dopo l‘autoesclusione del Partito Democratico dal ring politico — una volta si sarebbe detto l’Aventino, questa volta ce ne ricorderemo come il momento dei Popcorn — che ha permesso la formazione di un governo inedito al mondo tra le forze populiste del Movimento 5 Stelle e quelle della destra nazionalista di Matteo Salvini.
Il risultato? Lo spauracchio del fascismo, ovvero quel fantasma con cui, secondo Ruth Ben-Ghiat, non abbiamo mai fatto veramente i conti, si è rifatto vivo. Lo ha fatto sottoforma di aggettivo affibbiato al governo — in particolare alle politiche e alle modalità di comunicazione del suo ministro dell’Interno, aggressive, violente, arroganti e discriminatorie — ma anche associato alle violenze e agli atteggiamenti xenofobi che, da allora, abbiamo ricominciato a vedere nelle strade, nelle piazze, ma anche nei social.
Il problema vero che stiamo vivendo in questi mesi non è la vividezza del nostro ricordo delle disgrazie a cui ci ha condannato il regime mussoliniano, che siano il corporativismo, lo squadrismo, l’antisemitismo o il nazionalismo, ma che il corpo sociale italiano sta lentamente scivolando verso l’indifferenza
In questo contesto di alta tensione, pochi giorni fa, per la casa editrice Bompiani, è uscito un romanzo che si intitola “M. Il figlio del secolo”, di cui il proprio autore, Antonio Scurati, ha detto: «Era ora di riscrivere questa storia da dentro. Perché il lettore diventasse antifascista alla fine e non all’inizio della lettura». Al di là dell’intento “pedagogico” dell’autore — i romanzi, per fortuna, una volta scritti esistono al di là dei loro autori — il romanzo ha ricevuto due tipi di accoglienza.
Il primo, quello di uno storico come Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere lo ha smontato pezzettino per pezzettino accusando il romanziere della sua stessa natura di autore d romanziere, e lo ha stigmatizzato a causa delle bestialità storiche che contiene. Il secondo, quello di un giornalista, Ivan Carozzi, il quale, sul Post, pur rimanendoci male per gli errori notati dal primo, difende lo spirito antifascista del libro, sottolineando quanto proprio la natura romanzesca — e quindi finzionale — dia nuova forza a una pagina di storia del nostro Paese che stiamo colpevolmente dimenticando.
Entrambe le posizioni, dunque, fanno emergere un problema che esiste ma che non è affatto centrale, ovvero che ci sono pezzi di memoria del nostro passato, soprattutto quello oscuro del Ventennio fascista, che ci stiamo dimenticando. Il fatto che per il primo il difetto sia del romanziere e per il secondo dell’opinione pubblica non solo non cambia il risultato dell’equazione, ma non ne cambia neppure l’utilità, che resta scarsa.
Il problema vero che stiamo vivendo in questi mesi, infatti, non è la vividezza del nostro ricordo delle disgrazie a cui ci ha condannato il regime mussoliniano, che siano il corporativismo, lo squadrismo, l’antisemitismo o il nazionalismo — elementi che sono ancora purtroppo serpeggianti nella nostra vita politica e sociale. No, il problema vero che stiamo vivendo è che il corpo sociale italiano sta lentamente scivolando verso l’indifferenza, un’indifferenza che va dalla mancanza di empatia e compassione verso tutto ciò che è diverso da noi, fino al cinismo che pervade tutte le sfere della nostra società, dal mondo intellettuale borghese a quello popolare.
Il problema è che, anche al di là dei modelli storici a cui il nostro meschino cinismo somiglia, noi non siamo capaci di fermare questa deriva.
Il problema non è quanto queste attitudini meschine e lubriche siano simili a quelle che, circa un secolo fa, permisero l’ascesa di un partito che proprio sulle pulsioni della mediocrità fondò una ideologia mortifera. Il problema è che, anche al di là dei modelli storici a cui il nostro meschino cinismo somiglia, noi non siamo capaci di fermare questa deriva. Il problema è che stiamo assistendo al declino della nostra empatia come si assiste all’affondamento di un transatlantico dalla chiglia ormai spezzata. Il problema è che siamo noi i primi ad essere indifferenti, meschini ed egoisti.
Conoscere meglio la storia del nostro paese potrebbe aiutarci a reagire a questo emergere di sentimenti xenofobi e autoritari? La risposta è tanto impervia da farmi propendere a pensare che sia sbagliata la domanda. Scrivere libri su Mussolini che alla fine facciano diventare i lettori antifascisti, infatti, non è per niente rassicurante. Se l’antifascismo ha una forza infatti, e io credo fermamente che ce l’abbia, ce l’ha in quanto è totalmente umano.
Secondo alcuni, l’umanità non avrebbe bisogno di regole. Ma non perché queste siano ingiuste, folli o assurde. No, non ne è avrebbe bisogno semplicemente perché queste sono già dentro di noi e non ci vengono imposte dalla realtà contingente. Per questo, considerare l’antifascismo come solo e soltanto il frutto di una memoria storica è ormai diventato pericoloso: perché l’antifascismo, finché si accontenta di essere una negazione, non sopravviverà a lungo alle generazione che il fascismo l’ha vissuto sulla propria pelle.
È venuto il momento di andare oltre all’antifascismo, di trasformarlo in una attitudine che non ha bisogno di esempi storici a cui contrapporsi. È arrivata l’ora di stigmatizzare l’arroganza, l’aggressività, la xenofobia e la violenza in quanto tali, in modo assoluto, e non come solo come pallido riflesso relativo di un’epoca che oramai dista da noi quasi un secolo. È ora di smettere di combattere battaglie di retroguardia e di perdersi in discussioni su quanto sia stato stronzo Mussolini o su quanto gli somigli Salvini. Ora è il momento di tornare ad essere esseri umani al massimo delle nostre possibilità, e battersi per questo.