Porti chiusi? No, grazieEcco le cinque cose che Salvini dovrebbe fare (e non fa) per risolvere il problema migranti

Oltre alla riforma del trattato di Dublino si può fare molto per gestire l'arrivo di tanti stranieri in Italia. Dall'aumento dei canali di ingresso regolari a una sanatoria per chi ha compiuto percorsi positivi di inclusione sociale e lavorativa fino al potenziamento dei corridoi umanitari

L’assenza di politiche sull’immigrazione del governo è resa evidente, tra l’altro, dal fatto che l’attenzione dell’opinione pubblica viene costantemente focalizzata sugli sbarchi dei migranti e sulla criminalizzazione di chi li salva. Da ultimo, nel recente vertice di Helsinki tra ministri dell’Interno europei, Salvini ha ribadito il teorema della colpevolezza delle Ong, cardine del cosiddetto decreto sicurezza bis: «Il ripetuto trasbordo di migranti irregolari da parte di navi private costituisce oggettivamente un collegamento essenziale di una catena più articolata e strutturata, che porta alla violazione delle norme sull’ingresso legale di persone». Evidentemente, il ministro ha omesso di considerare che, su 3.073 migranti sbarcati in Italia nel 2019, soltanto 248 sono arrivati con navi di tali organizzazioni e che la presenza di Ong al largo non incentiva le partenze. Nella stessa sede, Salvini ha pure affermato che «Le regole della ricerca e soccorso in mare (Sar) non devono più essere sfruttate»: ma ha evitato di precisare che nel 2019 solo 587 migranti (19% del totale) sono giunti sulle coste italiane con operazioni Sar, e dunque di tale “sfruttamento” non c’è traccia.

Salvini ha contestato il criterio del “porto sicuro” perché esso fa sì che l’Italia sia luogo di sbarchi e, come Paese di primo ingresso, debba farsi carico delle relative richieste di asilo ai sensi del Regolamento di Dublino. Ma se è vero che il numero di richieste è alto, “specialmente in situazioni di afflussi massicci”, i dati attestano che l’Italia non è comunque il Paese più gravato. Peraltro, è singolare che il governo si lamenti del citato Regolamento, ma con i Paesi di Visegrad abbia concorso ad affossarne una riforma che era in linea con quanto teoricamente vorrebbe (quote per la gestione delle domande di asilo e fondi europei solo per chi rispettasse le regole). Premesse queste puntualizzazioni sugli ultimi eventi, può essere utile interrogarsi su quali azioni, oltre alla modifica del Regolamento di Dublino, potrebbero essere intraprese da un esecutivo che non usasse l’immigrazione a fini di consenso elettorale, ma si impegnasse nel provare a governarla.

A fronte di una riduzione del 10% dell’immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%

Innanzitutto, ogni strategia andrebbe elaborata in considerazione del fatto che «Quando si pongono forti restrizioni all’immigrazione regolare, aumenta l’immigrazione clandestina: a fronte di una riduzione del 10% dell’immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%». Dato che in Italia vi sono molte migliaia di stranieri non a posto con i documenti, la prima azione dovrebbe essere quella di diminuire gli irregolari presenti, con una sanatoria destinata a coloro i quali abbiano compiuto percorsi positivi di inclusione sociale e lavorativa. Essa consentirebbe, in primo luogo, di far entrare nelle casse dell’INPS i contributi previdenziali che il lavoro nero degli irregolari sottrae: in occasione di precedenti provvedimenti di emersione (l’ultima sanatoria è del 2012), ad esempio, il numero di colf e badanti extracomunitarie si è impennato, «A dimostrazione del fatto che questi lavori continuano a essere richiesti, ma vengono svolti senza versare i contributi sociali». In secondo luogo, la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno e, quindi, di svolgere lavori regolari avrebbe impatti positivi sulla condotta degli immigrati: «L’evidenza disponibile suggerisce che i provvedimenti di regolarizzazione comportano sostanziali benefici in termini di riduzione della propensione a delinquere dei cittadini stranieri presenti (irregolarmente) sul territorio nazionale, a seguito dell’accesso a migliori opportunità nell’economia regolare».

La seconda azione dovrebbe essere tesa a ridurre l’arrivo di stranieri irregolari mediante l’ampliamento di canali di ingresso regolari. Il canale principale è stato per diversi anni il cosiddetto decreto flussi, introdotto nel 2001 al fine di pianificare le quote di stranieri cui permettere l’entrata in Italia per motivi di lavoro. Quindi, andrebbe usato in pieno tale strumento, che nel tempo tuttavia è andato progressivamente perdendo consistenza poiché finalizzato ad autorizzare quasi esclusivamente l’arrivo di lavoratori stagionali e la conversione di tipologie diverse di permessi di soggiorno per soggetti già presenti nel Paese. L’entrata di stranieri in modo legale consentirebbe di fruire dei benefici che l’immigrazione regolare arreca al Paese, anche perché, chiudendo le frontiere a tutti, «Rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale»: gli immigrati che lavorano, tra le altre cose, versano ogni anno 14 miliardi di contributi sociali e ne ricevono sette a titolo di pensioni e di altre prestazioni sociali, con un saldo netto di 7 miliardi.

La possibilità di ottenere un permesso di soggiorno e, quindi, di svolgere lavori regolari avrebbe impatti positivi sulla condotta degli immigrati

La terza azione dovrebbe consistere nel potenziamento dei corridoi umanitari. «Sono 1.610 le persone richiedenti asilo accolte nel nostro Paese, in questo modo, negli ultimi due anni», grazie ai protocolli d’intesa varati da FCEI, Comunità di Sant’Egidio, Chiesa Valdese, CEI. Sono progetti che non gravano sulle casse dello Stato, poiché i fondi per sostenerli provengono in larga parte dallotto per mille. Ogni Paese che si dichiari favorevole ad accogliere chi ha i requisiti per la protezione internazionale – come Salvini ha più volte detto – dovrebbe superare «la lentezza e l’opportunismo» che ostacola la più ampia attuazione di questa forma di accoglienza. In quarto luogo, andrebbe valorizzato il fatto che il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 79), tra le altre cose, prevede che la UE possa «Concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione» di persone non in linea con le condizioni per l’entrata o la permanenza nei Paesi dell’Unione. Nella stipula di accordi di rimpatrio, la UE avrebbe una forza contrattuale maggiore dei singoli Stati (e, al riguardo, giova rammentare che il ministro dell’Interno italiano è ben lungi dai 500.000 rimpatri promessi). Di questa soluzione ha anche parlato il ministro Moavero Milanesi.

Infine, con riguardo alla presunzione di colpevolezza – favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – a carico delle organizzazioni che effettuano salvataggi in mare, di cui al decreto sicurezza bis, l’azione del governo dovrebbe tenere conto di una circostanza forse poco nota: la direttiva UE sul favoreggiamento (2002) prevedeva la possibilità che gli Stati membri non configurassero come reato l’aiuto all’entrata di irregolari nel territorio, se finalizzato all’assistenza umanitaria. L’Italia, ma non solo, non si avvalse di questa opzione. Di recente, il Parlamento Europeo ha invitato di nuovo a recepirla, «In modo da garantire che non siano perseguiti gli individui e le organizzazioni della società civile che assistono i migranti per motivi umanitari». Ma l’Italia continua ad andare in senso opposto, e non solo riguardo a quest’ultimo punto, evidentemente per motivi di consenso elettorale, come accennato. Infatti, col primo decreto sicurezza – tra le altre cose – il governo ha eliminato la protezione umanitaria, che consentiva permessi di soggiorno regolari, così aumentando le situazioni di illegalità, e ha abolito forme di integrazione per i richiedenti asilo (SPRAR), oltre ad aver ridotto quelle per i rifugiati con il taglio dei relativi fondi, così accrescendo la marginalità sociale e, conseguentemente, la potenziale delinquenza; col secondo decreto sicurezza prova ad ostacolare pure i salvataggi in mare di migranti, attraverso la presunzione di colpevolezza di cui si è detto. Quanto sopra esposto non esaurisce le misure da realizzare in tema di immigrazione, ma intende esprimere costruttivamente una visione diversa rispetto a una politica fatta di “narrazioni”: anche questo significa fare “opposizione”.

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