Qualche giorno fa, a Padova, 14 ragazzi africani hanno ottenuto il permesso di soggiorno per aver denunciato il proprio caporale, nei campi dove raccoglievano pomodori. È uno dei pochi casi “speciali” per cui il decreto sicurezza bis concede ancora di ricevere il permesso di soggiorno, l’essere soggetti a grave sfruttamento lavorativo. Pochi giorni prima, una trentina di giovani a Lequile, vicino Lecce, hanno scioperato perché non ricevevano lo stipendio da mesi, nonostante avessero lavorato per 11 ore al giorno (il compenso previsto era di 1 euro per ciascuna cassetta di pomodori). Prima ancora, altri avevano occupato la cattedrale di San Nicola di Bari, capitanati dal sindacalista Aboubakar Soumahoro, per dire basta allo sfruttamento e per chiedere alla Regione e al governo di adottare finalmente azioni concrete. Perché lo sfruttamento è ancora la quotidiana realtà di migliaia di braccianti agricoli in giro per l’Italia: persone che anche dopo aver affrontato l’inferno della Libia ed essere arrivati in Europa per cercare una vita migliore, vengono depauperate, picchiate, lapidate, vivendo spesso in condizioni di precarietà e rimanendo vittime dei roghi nelle baraccopoli. Moderni schiavi che si qualificano come gli ultimi degli ultimi, senza possibilità di riscatto perché irregolari, specialmente ora che il decreto sicurezza bis è stato approvato. Secondo un rapporto della Flai-Cgil, i lavoratori a rischio sfruttamento in Italia sono 430mila. Ma episodi come quelli di Padova, di Lequile e di Bari sembrerebbero dare un segnale di speranza.
In realtà, il fenomeno delle proteste non è nuovo. «È da almeno dieci anni che i braccianti scioperano e si ribellano contro i loro sfruttatori, i caporali e i datori di lavoro», spiega a Linkiesta Yvan Sagnet, fondatore dell’associazione NoCap, la prima rete internazionale anticaporalato. Sagnet, originario del Camerun, è arrivato in Italia nel 2007 ed è stato egli stesso bracciante nei campi pugliesi: nel 2011, a Nardò, fu protagonista della prima delle proteste degli immigrati sfruttati. «Noi pensiamo che sia una cosa molto positiva che queste battaglie partano soprattutto da loro, dalle vittime. Uno dei problemi è che in questo mondo pieno di omertà è che anche gli stessi datori di lavoro hanno paura a denunciare i propri aguzzini. E il reato di clandestinità non motiva le persone ad andare dalle forze dell’ordine».
«Se un agricoltore ha bisogno di 50 persone non va nei centri per l’impiego ma si rivolge al caporale»
In Italia, è dal 2016 che esiste una legge anticaporalato. Approvata dal governo Renzi, ha previsto un’integrazione dell’articolo 603-bis del Codice penale e introdotto una fattispecie base che supera la presenza di comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori (lo sfruttamento può esserci anche in assenza di questi elementi), aperto la strada alla sanzionabilità del datore di lavoro, oltre che dell’intermediario, e previsto l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, più in alcuni casi la confisca dei beni, e un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità. «Questa legge ha segnato un passo in avanti nella lotta al caporalato», spiega Sagnet. «Prima della legge 199 la magistratura non aveva gli strumenti per fare inchieste: sul piano repressivo è stato fatto un buon lavoro». Ma il fenomeno è, come vediamo oggi, ancora lontano dall’essere risolto. A rimanere scoperti, infatti, sono altri aspetti fondanti del fenomeno del caporalato, questioni “a monte” che vanno risolte. A partire dal problema dei controlli, che mancano sul territorio, nei luoghi di lavoro e negli ingaggi. «Se c’è questa omertà e una cultura dell’impunità è perché l’ispettorato del lavoro non funziona», dice Sagnet. In più, manca una seria riforma del collocamento pubblico: l’incontro tra domanda e offerta, in agricoltura, avviene infatti sempre più raramente in termini legali. «Se un agricoltore ha bisogno di 50 persone non va nei centri per l’impiego ma si rivolge al caporale», spiega Sagnet. Il terzo elemento è la questione del mercato: i prezzi dei prodotti agricoli vengono dettati in modo unilaterale dalla grande distribuzione, con il risultato che sono sempre più bassi, non c’è margine per gli agricoltori per sostenere il costo della manodopera, e le alternative sono soltanto abbassare il costo del lavoro oppure abbandonare il campo. «Potremo pure arrestare tutti i caporali del mondo, ma se non si risolve la questione dei prezzi dei prodotti, non si risolverà mai il problema», specifica Sagnet.
L’associazione NoCap ha tentato di risolvere il problema della tracciabilità della filiera dal basso, istituendo un bollino etico che punta ad informare il consumatore finale, spesso ignaro di ciò che sta dietro al prodotto che acquista al supermercato, per renderlo consapevole dell’aspetto etico della produzione, proprio come succede già per il biologico. Un approccio che, secondo recenti ricerche, in effetti incontrerebbe il favore dei consumatori. NoCap ha iniziato da tempo un percorso insieme a diversi attori, tra cui l’Associazione dei datori di lavoro e l’Associazione agricoltura, che in sé raccolgono 60mila imprese del settore, per tentare di battere la strada di quello che, sperano dall’associazione, diventi un modello strutturale per il paese. A ottobre 2018 è stata prodotta la prima passata con Bollino NoCap, e il progetto è di aumentare la produzione certificata.
«Con il decreto sicurezza che ridimensiona le manifestazioni, alcuni di questi ragazzi, se prima avevano il coraggio di manifestare spesso, ora non lo fanno più»
Ma occorre un sostegno concreto da parte dello Stato nel fare ciò che finora non ha fatto. «Il nuovo governo sta cercando di mettere in campo alcune iniziative, però noi non vogliamo che sia il solito approccio. Ci sono tavoli di concertazione, ma siamo ancora all’inizio e stiamo cercando di capire quanta volontà c’è dietro questa operazione», spiega Sagnet. E se l’attuale crisi di governo, naturalmente, sta rimandando qualsiasi genere di intervento, intanto il decreto sicurezza «invece di risolvere il problema lo ha amplificato, rendendoci la vita molto difficile. Molti dei migranti che erano assistiti dai centri di accoglienza e dagli Sprar si ritrovano nelle campagne e nei ghetti. In più, con l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, molti si ritrovano irregolari, con il risultato che i caporali hanno la possibilità di sfruttarli ancora meglio». Un meccanismo perverso, che invece di contribuire alla sicurezza e alla stabilità, amplifica il lavoro nero. Con in più la ciliegina sulla torta della nuova regolamentazione delle proteste: «con il decreto sicurezza che ridimensiona le manifestazioni, alcuni di questi ragazzi, se prima avevano il coraggio di manifestare spesso, ora non lo fanno più».
Secondo Sagnet, il livello di consapevolezza di quel che succede a livello statale varia molto tra i migranti dei campi. Ma quel che è paradossale è che in questi dieci anni la maggior parte delle lotte sono state portate avanti dai braccianti stranieri: «La componente straniera è quella che ha più consapevolezza dello sfruttamento, ne sono molto più coscienti degli italiani». Attraverso l’azione sindacale, Sagnet si occupa in prima persona di portare avanti l’opera di sensibilizzazione: il riscontro è sempre positivo, la voglia di riscatto tanta. Mancano però gli strumenti; la situazione aggravata da un quadro politico a tinte sempre più fosche: «Sul quadro politico alcuni di loro seguono l’attualità e naturalmente la vivono in modo negativo. Ci sono tante azioni negative, subiscono razzismo, ci sono migranti che vivono ghettizzati, che hanno paura di uscire. Serve un’azione strutturale per attivare questa determinazione», dice Sagnet. Sarebbero la materia prima della sinistra, gli “ultimi” da cui bisognerebbe ripartire, ritornando nelle piazze e sui territori. Ma è da tempo che dal Pd in giù si è smesso di farlo, tutti troppo impegnati a disintegrarsi in scissioni e a rincorrere una politica fatta di slogan, annunci e protagonismi gratuiti. Sarà che i migranti non portano voti?