Contro una pandemia la cosa migliore è attuare una ricerca a livello globale. È il principio di base di SOLIDARITY, il progetto, mai tentato fino a questo momento, messo in piedi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si tratta di un megatrial a livello planetario, cioè uno studio coordinato e in tempo reale che mira a raccogliere tutti i dati ottenuti dalle terapie messe in campo contro il coronavirus.
Si tratta di una impresa importante: la ricerca è stata costruita per essere semplice e accessibile, tanto che perfino gli ospedali travolti dai casi di contagio possono partecipare e fornire i dati. La collaborazione della comunità scientifica è il principio base: l’obiettivo è raggiungere il prima possibile dei riscontri oggettivi e comprovati a livello scientifico dell’efficacia delle terapie contro al coronavirus al momento più promettenti: il remdesivir, la clorochina e l’idrossiclorochina, il lopinavir/ritonavir da soli e in combinazione con l’interferone beta.
Non si esclude di aprire lo studio anche ad altre terapie e farmaci: come si scrive qui, nemmeno all’Avigan, o faviripavir, il farmaco anti-influenzale di produzione giapponese, approvato nel 2014 e finora somministrato solo in pochi casi. In Italia è diventato celebre a causa di un video su Youtube, in cui un farmacista dal Giappone ne decantava proprietà quasi miracolose. Da lì è scaturita un’ondata mediatica che si è trasformata presto in una posizione politica, con le parole dei presidenti di Veneto e Lombardia, che hanno insistito per chiedere una sua sperimentazione. Nello sconcerto generale, il ministero della Salute e l’Aifa hanno aperto alla possibilità.
Finora non si hanno riscontri particolari della sua efficacia contro il coronavirus. Le evidenze scientifiche, ricorda l’agenzia stessa, sono «scarse». Non è «autorizzato né negli Usa né nel resto d’Europa» e sul suo conto si posseggono al momento solo informazioni preliminari, presenti in una ricerca non ancora sottoposta a peer review. Non si esclude però «una potenziale attività»: accelererebbe la velocità di scomparsa del virus dal sangue, ma si temono gli effetti collaterali.
Si rivelano incoraggianti, piuttosto, i primi risultati della sperimentazione del tocilizumab. Il farmaco anti-artritico che non va a colpire il virus ma si concentra sugli effetti della malattia, cioè sulla spropositata risposta immunitaria. Nell’ambito di uno studio chiamato Tocivid, è stato somministrato a 330 pazienti in tutta Italia in 218 centri, dalla Lombardia alla Puglia.
La ricerca distinguerà i risultati che si otterranno da due tipologie di pazienti, quelli con segni lievi di insufficienza respiratoria (compresi gli intubati da meno d 24 ore) e quelli che mostrano sintomi più aggravati (e sono stati intubati da più di un giorno). L’obiettivo è coglierne l’efficacia in termini di riduzione della mortalità e di miglioramento delle condizioni in fase di emergenza.
Al momento, anche se per avere risposte attendibili a livello generale si dovrà aspettare almeno un mese, ci sono alcune, cautissime, buone notizie. All’ospedale Cotugno a Napoli quattro pazienti affetti da Covid-19 hanno dato segni di miglioramento in pochi giorni. Uno, giovanissimo (ha 27 anni), ha rivevuto il tocilizumab il 18 marzo e ora è sottoposto alla ventilazione assistita. Si prevede di spostarlo nel reparto dei degenti Covid. Lo stesso vale per gli altri tre, che hanno cominciato la terapia il 19 marzo e si trovano, ora, in ventilazione assistita. Una paziente, visti i netti miglioramenti, avrebbe lasciato il reparto. Ma l’invito alla cautela da parte dei medici è tassativo. Anche se sarebbe «un ulteriore segnale di attività del farmaco».
Per quanto riguarda l’impiego di lopinavir/titonavir, retrovirali impiegati contro l’Hiv, lo studio più significativo, condotto in Cina su 199 pazienti, non sembra aver rilevato effetti incoraggianti. Tuttavia, ricorda l’Aifa, la terapia in questione è stata somministrata a malati in stato avanzato, mentre i protocolli, anche quelli impiegati in Lombardia, la suggeriscono per chi è ancora poco compromesso. Per questa ragione, conclude, è meglio non abbandonare le speranze. Si sofferma piuttosto sul fatto che la ricerca registri una minima tendenza positiva sulla mortalità e sulla riduzione della permanenza in terapia intensiva.