I tweet oggettoLe imperdibili mini lezioni di design di Chiara Alessi

Ogni giorno in 140 secondi l’account #designinpigiama narra storie e aneddoti legati a prodotti, idee e marchi del made in Italy

Chiara Alessi, frame da Twitter

Non c’è solo Netflix o la valanga di libri lasciati da parte da recuperare. Il tempo sospeso della quarantena regala anche occasioni inaspettate, perle insolite, piccole fortune. Ad esempio, le lezioni di design di Chiara Alessi su Twitter. Pillole giornaliere di 140 secondi, in cui la storica, professoressa ed esperta di design (vi è nata, del resto: discende dagli Alessi e dai Bialetti) descrive e racconta un celebre oggetto, o un marchio, o un’idea a metà tra arte e funzionalità.

Il design è un mondo nel mondo, ricco di storie semplici e incredibili, in cui si scovano collegamenti impensati agli eventi del passato recente. Ad esempio: la lampada Eclisse di Artemide, opera dell’archietto e designer Vico Magistretti, che nasce grazie a un’ispirazione un passaggio de “I Miserabili” di Victor Hugo, e viene scritta su un biglietto della metropolitana (e chissà che fine ha fatto). O l’idea di chiamare “Baci” i dolci di Perugia, in origine “Cazzotti” (1922): è del signor Giovanni Buitoni (proprio lui, quello della pasta) che all’epoca era l’amante della signora Luisa Spagnoli, la pasticciera geniale. E ancora: la caffettiera 9090, opera del 1979 di Richard Sapper. Si chiama così per il numero di passaggi richiesti per la sua costruzione: 90, appunto. E il “ragno di Starck” l’iconico spremiagrumi del 1988, non è né un ragno né un alieno, ma l’evoluzione grafica e fantasiosa di un mollusco, nata sul tovagliolo di un ristorante.

Volendo aggiungere storia su storia, va detto che tutti adesso sanno che il “Cane a Sei Zampe”, marchio di Eni del 1952, è opera dello scultore Luigi Broggini: ma all’epoca aveva voluto restare nascosto mandando avanti, al suo posto, l’assistente. Mentre il progetto della Moka di Alfonso Bialetti risale al 1933, ma fu messo da parte per la guerra e ripreso solo dopo, dal figlio Renato (è lui l’uomo con i baffi). Nota sinistra: era il figlio della seconda famiglia di Alfonso. La prima era stata portata via dall’influenza spagnola.

Come è nato #designinpigiama? «È da un anno circa che avevo cominciato a fare tweet di testo e immagine su oggetti, progetti, persone e luoghi del design», spiega a Linkiesta Chiara Alessi. L’idea delle pillole nasce da qui. «Volevo provare ad accumulare materiale per una specie di museo virtuale di aneddoti, curiosità, immagini d’archivio su oggetti molto popolari della storia italiana del novecento». Una sfida nuova, anche per lei: insegna Storia del Design al Politecnico e ha pubblicato molto sull’argomento, ma «l’esercizio di sintesi e divulgazione che richiede un social mi sembrava un esperimento interessante». Al momento sembra riuscito.

«A gennaio 2020 avevo iniziato a lavorare proprio a un progetto di mostra dedicata a un “giro d’Italia in 80 oggetti”», raccogliendo piccole storie su grandi oggetti della nostra cultura. «Non sono del tutto d’accordo con l’idea che gli oggetti parlino da sé e sia sufficiente metterli su un piedistallo (atteggiamento diffuso nei musei del design) perché raccontino la loro storia. O meglio: penso che sia molto più interessante fare loro le domande giuste e che, alla fine, non sia nemmeno così necessario farli vedere. Tutti conoscono la poltrona Sacco, la lampada Eclissi, l’ovetto Kinder, il Bacio Perugina. Ma in quanti ne sanno la storia?»

Ed ecco #designinpigiama. «Esatto. ho fatto questa prova con questo format» che fa i conti con le necessità imposte dalla quarantena. «I miei libri sono in studio, non ho la possibilità di mostrare oggetti (perché non ho una collezione così ampia in casa), e sono stata vincolata a parlare di quelli che tutti hanno in mente. Questa è stata la prima leva». E poi? «Ho capito che la reazione era tanto più amplificata quanto più le persone leggevano in quelle storie episodi umani di resistenza e rilancio e fiducia nel progresso e nelle idee. Quindi è andata un po’ da sé scegliere oggetti che avessero a che fare con il primo dopoguerra e gli anni Sessanta, l’epoca d’oro del design italiano».

Ma non manca l’attualità. «Me lo sono imposta – e alcuni, mi fa piacere, lo hanno notato: il casco da cantiere quando c’è stato l’accordo coi sindacati per fermare la produzione; il logo del Cane a Sei Zampe di Eni quando sui social si discuteva sui cani che venivano usati per uscire durante la quarantena; il calendario perpetuo di Enzo Mari nel giorno dell’ora legale; la coppa del nonno per la festa del papà. Essere rilanciata da profili molto seguiti – nomfup, manginobrioches, Burioni, makkox, gli amici Giulia Selvaggi e Tito Faraci, e tanti giornalisti – naturalmente ha contribuito a darmi eco. Nel giro di una settimana ho raddoppiato i miei follower e ho potuto raggiungere tantissime persone che si sono affezionate all’appuntamento mattutino. Lo commentano, mandano richieste per le prossime puntate, foto dei loro archivi privati, storie a loro volta personali di collaborazione o prossimità geografica alle realtà di cui parlo».

Come se la spiega questa reazione? «Probabilmente perché mi vedono in pigiama, coi figli dietro che giocano e si inseriscono a sorpresa nei video, con storie che provo a raccontare come piccole favole; coi modi maldestri con cui maneggio l’inquadratura. Magari questa pulizia necessaria dal glam, che di solito si vede intorno al design, contribuisce ad avvicinare chi magari ne sarebbe intimidito, sentendolo come una cosa troppo distante, troppo patinata, come di fatto, ahimé è diventata negli ultimi anni».

Twitter però non l’ha perdonata e l’ha bloccata. Come è possibile? «Io rilancio tutti, mi appassiono a loro volta alle storie con cui si agganciano e integrano le mie che, per forza di cose, hanno il limite dei 140 secondi. E a furia di rilanciare, twitter oggi mi ha bloccato – temporanemente – alcune funzioni perché ha pensato fossi SPAM. Mi pare, ma non ne ho conferma, che abbiano abbassato le soglie massime di like e retweet. Nei primi giorni venivo spesso censurata perché mi avvicinavo troppo al video e la prendevano per una posa osé… ». Da ridere. «Alla fine però si è creata una vera comunità di affezionatissimi che si appassionano a questi dietro le quinte e che poi proseguono a parlare e commentare tra di loro, come se si riproduccesero proprio dinamiche sociali della vita fuori».

Appunto, la vita fuori, si è fermata. Come il Salone del Mobile di Milano, appuntamento fisso per designer e produttori di tutto il mondo. Si farà nel 2021. Cosa ne pensa? «Credo che saltare un anno di Salone del Mobile sia un danno economico incredibile anche sull’indotto che paga la festa alla città per una settimana. Però, farlo chiudendo ai paesi stranieri avrebbe dato forse un’immagine molto triste, di declino, più che di contenimento ragionato: e non avrebbe fatto bene alla città. Del resto, all’opposto, farlo al completo, come un Salone qualsiasi, ignorando tutto quello sta succedendo in giro, chiedendo alle fabbriche uno sforzo immane in questi mesi, sarebbe stata una grande responsabilità, forse esagerata, e senza garanzie».

Secondo alcuni è una possibilità per fermare la macchina, prendere una pausa, e concentrarsi sulle idee più a lungo respiro. «Sono anni che sento lo slogan: fare meno fare meglio, che significa fare meno prodotti, meno eventi, meno confusione, ma più ricerca, investimento sul proprio patrimonio, lavoro sugli archivi. Ho la sensazione che la grande possibilità in questo momento sia offerta non tanto dall’obbligatorietà della pausa ma dalla sua estensione a tutti. Io sono fermo, ma lo sei anche tu: quando ripartiremo lo faremo dallo stesso punto in cui ci siamo fermati (se abbiamo rispettato le regole). Detto questo, sento e vedo preoccupazione di non riaprire più per tante attività, di solito incastrati nella catena tra le aziende e noi pubblico. Il design, inteso come progetto, visione, pensiero laterale, dovrebbe subito mettersi al lavoro per misurarsi su questa che è la nuova urgenza più prossima. Una cosa è certa: occorre un cambio di paradigma diffuso e potente. Non possiamo pensare di andare avanti per inerzia come si è sempre fatto, mettendo la polvere sotto il divano e i filtri alle foto. La realtà non è più luccicante: fare finta che lo sia non è più un trucco, è un inganno».

E come cambiamento, può essere compreso anche il suo #designinpigiama? Magari come forma di rilancio digitale/virtuale della settimana del Mobile? «Non lo so. Non so dare la formula del successo di #designinpigiama ma so, abbastanza per certo, che se fosse stato proposto quando la gente poteva uscire di casa e insieme ad altre iniziative a tema design non avrei mai raggiunto una media di 30k visualizzazioni al giorno – per un format social non sono niente ma, se guardate i numeri dei visitatori medi mensili delle mostre e dei musei di design in città, sono cifre abbastanza importanti».

Che reazioni ha avuto dal pubblico “di settore”? «Nessun riscontro, nessuna proposta di unire le forze, nessuna idea di progetto insieme: facciamo finta che sia legato al fatto che usano altri social? Invece ho trovato molti contatti di rilancio con altre sponde e una partecipazione allargata e trasversale che poi, in fondo – o in principio – è stata la fondante caratteristica della storia del progetto italiano, pensato per essere inclusivo, capillare nella diffusione di cultura e nella trasmissione di bellezza a tutti i livelli (nei video ho citato il poeta Sinisgalli e Vittorini a capo della comunicazione di Olivetti; Eugenio Carmi come artista in fabbrica per gli operai di Italsider; Vignelli per l’infortunistica di Pirelli e la lista è lunghissima).

Ma quindi è contenta o no? «Ma certo, faccio una cosa che mi diverte, che mi serve, che mi dà la possibilità di studiare, di prendere contatti con realtà diverse da casa e, non ultimo, di far capire finalmente ai miei figli che lavoro faccio. E che poi anche le persone che mi seguono trovano piacevole. Certo, non sono un juke box, quindi ho ancora un mese al massimo di puntate che sono realisticamente in grado di fare senza il supporto dei miei libri e degli oggetti veri, dopodiché, sarò io a dover chiedere l’aiuto da casa».