Nella storia non c’è crisi di salute pubblica che non abbia lasciato il segno nella vita urbana. Del resto l’urbanistica moderna è nata proprio come disciplina per “curare” i mali delle città di fine Ottocento: tubercolosi, colera e tutte quelle epidemie imputabili a sovraffollamento, promiscuità e precarie condizioni igieniche sanitarie. La Napoli che conosciamo oggi è il frutto di una serie di interventi pensati in seguito all’epidemia di colera del 1884, quando sono stati demoliti interi quartieri per realizzare piazze e strade più larghe e gli abitanti sono stati spostati in nuovi quartieri più decentrati ma con condizioni igieniche e sanitarie migliori.
Gli urbanisti, da soli, oggi non bastano per ripensare alle nostre città, per questo è interessante riprendere alcune riflessioni in merito.
Un primo approccio è quello di chi sostiene che “nulla sarà come prima” e che questa pandemia rappresenta “una grande opportunità” per cambiare le nostre città, ovviamente in meglio. Richard Florida e Steven Pedigo, in questo articolo elencano una decina di punti da affrontare quando il lockdown sarà finalmente finito: adeguamento di aeroporti, musei, strade, ristoranti e fabbriche per favorire il distanziamento sociale. Insomma, un piano di investimenti per riorganizzare gli spazi urbani e le grandi attrezzature collettive ma anche un cambio radicale delle nostre abitudini sociali per rendere la nostra vita più sicura ed essere pronti ad eventuali (e possibili) altre pandemie future.
Certamente queste proposte sono coraggiose e molto suggestive tuttavia temo che, oltre che peccare di radicalità, non considerino che i processi di trasformazione delle città moderne, in particolare in quelle in cui vige un regime di democrazia, sono sempre lenti, complessi e raramente così razionali.
Un secondo approccio, più interessante, è quello di chi vede la crisi come un acceleratore di fenomeni già in atto e si interroga su quale direzione prenderanno alcuni dei processi che oggi sono ancora in divenire. Richard Sennet, citato in questo articolo cerca di leggere, in prospettiva post coronavirus, alcuni elementi del dibattito sulle città contemporanee.
Ci sono due questioni che sono particolarmente utili per generare dibattiti e riflessioni più ampie sul governo delle città in epoca post lockdown.
La prima questione è il rapporto tra la vita urbana e quella di provincia. Arriviamo da anni di protagonismo delle città: la popolazione mondiale sta diventando sempre più urbana, le città rappresentano i luoghi dell’innovazione, dell’integrazione e anche della sostenibilità. Oggi però questa pandemia ci insegna, o forse solo ci ricorda, come le città proprio grazie ai suoi molteplici luoghi di scambio e relazioni sono un luogo potenzialmente molto pericoloso per la propagazione di un virus. Se è difficile immaginare che la crescita della popolazione urbana in atto possa invertirsi in modo repentino, sarebbe però auspicabile tentare di riequilibrare la localizzazione di funzioni e di servizi, anche attraverso investimenti pubblici mirati, finalizzati ad attutire il processo di impoverimento che ha interessato molti territori di frangia. L’auspicio è quindi che il COVID-19 ci porti a capire che la soluzione non è mettere in contrapposizione città e campagna, quanto avere un nuovo approccio sia nei sistemi di governo territoriale che nella progettazione degli spazi e dei servizi collettivi (a partire da quelli sanitari), ricercando una maggiore integrazione di funzioni e di dotazioni tra città centrale e hinterland. Solo così potremo costruire comunità in grado di occuparsi in modo più efficace della salute dei propri cittadini ma anche di affrontare una nuova stagione all’insegna della sostenibilità economica e sociale.
La seconda questione riguarda l’uso dei dati e delle nuove tecnologie digitali nei processi di governo, in particolare delle città. Già oggi la dimensione digitale ha impatti molte nostre abitudini quotidiane, basti pensare come Google maps o la sharing mobility hanno cambiato i modi con cui ci spostiamo, ma in queste settimane l’esperienza coreana ci ha dimostrato come la tecnologia, l’uso dei dati e un governo capace di soluzioni rapide possono essere un potente alleato anche per difendere la nostra salute.
Secondo una ricerca dell’agenzia creativa We Are Social, entro il 2024 circa il 40 per cento della popolazione mondiale e circa 20 miliardi di dispositivi, dalle automobili ai frigoriferi e dai telefoni cellulari ai semafori, saranno collegati alla rete 5G. Di chi saranno tutti quei dati? Per cosa saranno utilizzati? La nostra privacy è da anni sotto attacco da social network e piattaforme commerciali che li utilizzano per fare utili. Forse è giunto il tempo di aprire seriamente un dibattito che, partendo dal profilo giuridico, definisca in maniera progressiva un diritto all’accesso e all’uso dei dati, quelli che produciamo con i nostri smartphone e quelli amministrativi, per interessi collettivi oltre che commerciali.
Più integrazione tra città e campagna e più investimenti in tecnologia per rendere i nostri territori più intelligenti sono due temi sui quali questa emergenza ha aperto nuove prospettive. Due temi da cui ripartire, dal punto dove ci eravamo fermati.