Prepararsi alla pandemia, riuscire a chiudere tutto senza perdere (troppa) competitività, tornare in pista in tempi rapidi e con sistemi efficaci. È possibile? Secondo il modello di comportamento ideale per le imprese elaborato dalla Purdue University, sì.
È una sorta di vademecum strategico, da un lato manuale di consigli per manager, dall’altro ritratto delle imprese di domani. Al suo interno c’è una (o la) formula per convivere con il coronavirus (e con la crisi economica che ne consegue) basata sul principio fondamentale dell’innovazione. «Per quanto sia grave la pandemia», spiega Ananth Iyer, direttore del Dauch Center for the Management of Manufacturing Enterprises «il futuro è radioso».
Parole in controtendenza, forse fuori luogo. Ma lui è convinto. La crisi obbliga a intervenire sul processo produttivo e consente di migliorarlo, con una value stream mapping (individuazione degli sprechi nei processi produttivi, ndr) adeguata alle necessità sanitarie ma aperta a innovazioni e cambiamenti. A sostenere la sua visione ci sono i manager e direttori di stabilimento di almeno 250 aziende, che con interviste e sondaggi hanno fornito gli spunti necessari per elaborare linee guida generali.
Il paper considera tre distinte fasi del processo produttivo. La prima, durante la pandemia, riguarda tutte le aziende cui è consentito o imposto l’obbligo di continuare a lavorare. La seconda, invece, si concentra su quelle che, per varie ragioni scelgono o devono tenere chiuso. La terza fase è il ritorno alla produzione: riapertura dei lavori e reinserimento nel mercato. Ognuna presenta specifiche difficoltà e ostacoli tecnici. Ma per tutte, assicurano, la chiave è nella comunicazione e nell’impiego di strumenti tecnologici.
«Chi resta aperto deve sapere rassicurare i lavoratori. I messaggi devono poter raggiungere tutti, in modo chiaro e preciso». Si consiglia di utilizzare una app interna, «anche per evitare lo spettacolo dei fogli appesi nelle sale comuni» che consente scambi rapidi e sicuri.
Occorre franchezza, prima di tutto, perché permette «di anticipare timori e preoccupazioni nel personale» e premia, di rimando, con sentimenti di fiducia e volontà di collaborazione da parte dei dipendenti, risorsa preziosa quando si tratta di rivoluzionare il processo produttivo.
Questa è l’occasione, spiega Iyer, anche «per migliorarlo». È quello che ha fatto una grande azienda di Lafayette (non si cita il nome): si disegna una mappatura precisa di ogni passaggio e si interviene nei punti critici, che possono essere l’ingresso del fornitore, i trasporti interni, l’immagazzinamento. Più in generale, «hanno imposto un distanziamento di due metri per ogni operaio», hanno fornito schemature di plastica «prodotte in autonomia», hanno studiato turni per la sanificazione incrociati con quelli dei lavoratori.
È una delle chiavi. Per ottenere il medesimo output produttivo (per un’azienda alimentare, per esempio, si tratta di una questione vitale) pur avendo meno operai sulla catena il sistema di turnazione deve essere calibrato in modo scrupoloso, aggiungendo il contingentamento degli ingressi, delle uscite, delle pause per il pranzo, anche con l’impiego di messaggi a diffusione sonora o per via elettronica (la famosa app).
Chi chiude in via temporanea ha l’occasione, al contrario, di passare alla cosiddetta fase 2 (che non c’entra niente con quella del governo). È il periodo in cui si provvede alla sanificazione dei locali e, soprattutto, si pongono le basi per la fase 3, cioè la riapertura.
Il primo passo è chiedere ai dipendenti (se pagati) di utilizzare il tempo della chiusura per seguire un percorso formativo e acquisire nuove abilità. È un investimento: attraverso le piattaforme digitali esploreranno le possibilità di rivedere i processi con collaborazioni virtuali, apprenderanno l’utilizzo di nuovi software e macchinari – sia in via virtuale che reale, cioè con prototipi spediti a casa – e impareranno nuovi skill che li renderanno multitasking, qualità essenziale per i periodi in cui il personale a disposizione diminuirà e saranno chiamati a coprire le assenze.
Sempre con strumenti di telelavoro – almeno a livello manageriale – si potrà continuare a tenere meeting e scambiare idee e opinioni, tanto da re-immaginare la riorganizzazione capillare dell’azienda.
È il punto di arrivo: «Questo è il momento migliore per introdurre nuove tecnologie», sostiene Iyer, ed è difficile non essere d’accordo. Anche perché la fase 3, la più difficile, determinerà la sopravvivenza dell’azienda. O si innova o si muore. E per paradosso l’emergenza Covid può portare a una spinta in avanti, verso l’automazione, sia per le aziende grandi che per quelle piccole.
Secondo la ricerca alcune hanno già pianificato di introdurre robot per la sanificazione. Altre di demandare le operazioni di inventario a droni, che voleranno lungo il magazzino registrando i codici dei prodotti e tenendo aggiornato sia lo status che la catena di produzione (tutte attività che, data la persistenza del virus sulle superfici, si raccomanda di demandare a meno persone possibile).
Per i dipendenti, la Ford sta testando l’impiego di braccialetti elettronici che rilevano la distanza tra le persone ed emettono segnali quando si superano i limiti consentiti. E ancora, si investe sui co-bot: cioè robot collaborativi, che interagiscono in modo diretto con gli esseri umani (e si rivelano utilissimi per operazioni di fatica e di precisione, ad esempio nell’assemblaggio). Saranno la chiave di una catena produttiva dove i lavoratori devono rimanere distanziati.
In più attraverso sistemi di controllo e smart tracking si potranno tenere monitorati i movimenti e gli spostamenti dei dipendenti nei locali, assicurandosi che seguano i percorsi definiti e prevengano contatti con gli altri. Il tutto per preservare la salute di tutti.
L’ideale, fa presente il paper, è che tutte queste innovazioni siano rapide ed estese a tutta la supply chain: questo permetterà di mantenere il massimo della sicurezza per i lavoratori insieme a una maggiore adattabilità, a seconda dei periodi, di tutta la produzione. Dovranno essere comunicate, spiegate e adottate da tutti. È la nuova normalità post-coronavirus. Quella che porterà l’automazione a livelli più alti e che, secondo Iyer, aprirà le porte «a un futuro radioso».