Non solo scuole, ma anche asili e nidi: le incertezze sulla fase due programmata dal governo per la riapertura del Paese sono un problema per le famiglie, che non sanno come potranno gestire i figli. E se la questione costituisce un problema per tutti i minori, a maggior ragione questo vale per i bambini in età prescolare, che devono essere seguiti in maniera particolarmente attenta, e per i quali le misure sanitarie, dal distanziamento sociale alle mascherine, potranno essere attuate con difficoltà.
Il premier Giuseppe Conte ha annunciato l’arrivo di misure per altri 50 miliardi all’interno del decreto Aprile, ma ad oggi, con la riapertura prevista al 4 maggio, le certezze sull’organizzazione sono ancora poche. Le misure del congedo parentale e del bonus babysitter stabilite dal governo a marzo hanno tappato dei buchi rilevanti, ma riportare i genitori al lavoro senza misure pensate per assistere chi rimane a casa sarà complicato.
Secondo un sondaggio di Yoopies, piattaforma internazionale di incontro fra domanda e offerta di assistenza all’infanzia e servizi alla famiglia, il 53% dei genitori tornerà al lavoro nella fase due, con grosse difficoltà di gestione familiare.
Il sindaco di Milano Beppe Sala ha chiesto all’assessorato competente di elaborare una proposta su come riaprire le scuole, avviando un censimento dei cortili e dei parchi in città, proprio in vista di un’organizzazione che consenta ai bambini di stare all’aperto, di fare attività fisica e di ridurre i rischi legati al contagio.
In generale, Sala ha chiesto al governo «più fantasia» per la scuola, proponendo di trasferire le attività didattiche nei teatri, nei cinema e in altri spazi che consentano il distanziamento sociale. Per affrontare il periodo estivo, inoltre, Sala ha proposto l’introduzione di una summer school che possa assistere i genitori nella gestione dei figli.
Si tratta di una soluzione che tornerebbe utile alle famiglie con bambini piccoli, che normalmente sono abituati a frequentare il nido e l’asilo fino a fine luglio. Il timore principale è che sia «già tardi», dice a Linkiesta Valentina Briguglio, mamma di due bambini di 2,5 e 6 anni e presidente della rappresentanza cittadina per i servizi all’educazione 0-6 anni a Milano.
«Noi dialoghiamo costantemente con il comune, perché facciamo da tramite tra le famiglie sul territorio e l’amministrazione, in particolare con l’assessore all’educazione e istruzione Laura Galimberti. Per noi è urgente convocare un tavolo e una commissione di esperti, per capire come affrontare i prossimi mesi. Noi genitori abbiamo interesse a che i bambini tornino a scuola dopo il 4 maggio, ma ci preme anche che ciò sia fatto seguendo tutte le precauzioni sanitarie».
La rappresentanza cittadina dei genitori (composta da 18 membri, due per municipio) chiede in particolare di essere coinvolta insieme ad un team di esperti, medici, pediatri, pedagogisti, psicologi, per portare al tavolo la propria “esperienza sul campo” e stilare insieme soluzioni. «Il periodo estivo potrebbe essere una prova molto utile per prepararsi al futuro e alla ripartenza delle scuole da settembre», spiega la presidente.
Le misure specifiche sono difficili da immaginare, proprio perché il livello di assistenza è complesso, e va dalla riorganizzazione dei turni dei genitori – «abbiamo bisogno di certezze in questo senso, perché il nostro lavoro dovrà essere adattato», dice Briguglio – alla tutela dei bambini non solo da un punto di vista sanitario, ma anche educativo. Il comune di Milano in queste settimane di chiusura ha previsto per le scuole dell’infanzia una piattaforma chiamata Padlet per consentire ai bambini di rimanere in contatto con le maestre e non perdere il rapporto umano, in una quotidianità già scombussolata dall’arrivo del virus.
Uno strumento utile, ma che di certo non può rimpiazzare la presenza fisica delle figure educanti, che per i bambini sono essenziali alla crescita. «Mio figlio mi chiede in continuazione della festa di fine anno della scuola materna, è un rito di passaggio, una cosa molto importante per loro», dice Briguglio. «Bisognerebbe pensare in particolare a misure che consentano ai bambini che si trovano a concludere un ciclo, dall’asilo alle elementari, dalle elementari alle medie, di vivere questa transizione nella maniera più naturale possibile».
Se ancora mancano misure generalizzate per le famiglie, in molti si sono attivati per cercare soluzioni. Un caso nella città di Milano è costituito da Zumbimbi, progetto della cooperativa La Cordata e della cooperativa Comin per assistere i minori tra 2 e 14 anni che hanno entrambi i genitori ospedalizzati per via del coronavirus, o che comunque sono privi di una rete di supporto che consenta loro di rimanere a casa come tutti gli altri.
Sito in una struttura di accoglienza in via Zumbini, nel quartiere della Barona, il progetto accoglie i bambini in forma residenziale e li assiste giorno e notte con personale sanitario (sono tutti trattati come potenzialmente positivi, dunque con tutti i dpi e protocolli del caso) ed educativo. Durante il giorno, una quarantina di educatori, volontari e psicologi portano avanti le attività scolastiche e di gioco, sia in loco che da remoto. La parte sanitaria viene gestita da Emergency, i volontari provengono dalla diaconia valdese, mentre la parte di finanziamento deriva dalla Fondazione di comunità di Milano, l’ente di Fondazione Cariplo dedicato allo sviluppo di progetti in ambito sociale, culturale e ambientale.
Molti sono i progetti nati in occasione dell’emergenza: Fondazione di Comunità di Milano spiega a Linkiesta che sono oltre 120 i progetti presentati tramite il sito, di cui 40 hanno già ricevuto finanziamenti, e ai quali a breve se ne aggiungeranno altri 30. Si spazia dai progetti per l’assistenza ai disabili a quella psichiatrica per i pazienti che non possono più stare in ospedale. «Abbiamo capito da subito che l’emergenza sociale legata al coronavirus sarebbe stata profonda quanto quella sanitaria», spiega una portavoce a Linkiesta. «Molti progetti che avevamo già si sono riconvertiti in fretta per far fronte alle problematiche generate dal Covid-19».
Si intende come il terzo settore e il mondo del no profit, in un’emergenza simile, stia portando soluzioni concrete e immediate lì dove le amministrazioni pubbliche non sono ancora riuscite ad arrivare. Ma anche qui i problemi non mancano: «una prima questione è dettata dal fatto che per molte realtà le attività che erano state programmate sono state sospese, e dipende dai singoli contratti se siano previste coperture economiche o meno. Noi come Fondazione di Comunità assicuriamo il nostro sostegno, magari chiedendo una ridefinizione dei progetti», dice la portavoce.
Mentre un secondo limite è il fatto che dall’inizio dell’emergenza «l’attenzione è stata rivolta quasi interamente all’emergenza sanitaria, per cui all’ambito sociale sono venuti a mancare i fondi e le donazioni che servivano per portare avanti le attività».
Così come si parla di incentivi alla riconversione per le industrie, forse bisognerebbe pensare ad un tipo di supporto simile per le realtà che si reinventano e provvedono a soddisfare dei bisogni che sono centrali alla vita del Paese tanto quanto il resto delle attività produttive.
«Noi vorremmo che si smettesse di pensare al terzo settore come a un mondo che provvede soltanto ai casi di disagio più grave. Perché ci occupiamo anche di quelli, certo, ma sempre di più queste realtà servono alla gente comune ed integrano i servizi del mondo delle imprese». Qualsiasi genere di soluzione dovesse essere implementata, insomma, non dovrebbe prescindere dall’apporto fondamentale di queste realtà, che vanno sostenute proprio perché cruciali per la ripresa.