Quarta pareteMascherine, monologhi e spettacoli per pochi: così il teatro si ripensa per affrontare il futuro

Le disposizioni di sicurezza rendono impossibile allestire molte produzioni. Servono soluzioni creative, alcune (come quelle del Teatro Parenti) passano per serate all’aperto e camion in piazza

È una delle incognite della fase di convivenza con il virus. Come sarà il teatro di domani? Il problema non riguarda tanto la posizione degli spettatori nella platea, per i quali sono allo studio formule simili a quelle dei cinema (distanziamento, dimezzamento dei posti, file ordinate e mascherine). Bensì il palcoscenico. Come reciteranno gli attori? E soprattutto: cosa?

Non è questione da poco: alcune produzioni, come fanno notare dal Globe Theater di Roma, creatura di Gigi Proietti e dedicata alle opere di Shakespeare, non sono possibili. Certi passaggi richiedono la presenza in scena di molte persone, e questo impedisce agli attori di rispettare il distanziamento.

Non solo. A differenza delle produzioni di film, già autorizzate in alcuni Paesi, e per le quali è possibile tenere isolata la troupe, attori compresi, per la durata delle riprese (come consentono di fare in Islanda), una cosa del genere, per il teatro, è impensabile.

Servono soluzioni alternative e (per fortuna che non manca in quel settore) una certa creatività. A Siracusa l’Istituto Nazionale del Dramma Antico ha deciso, proprio per rispettare le direttive di sicurezza, di evitare la messa in scena di tragedie e commedie antiche.

Al loro posto concerti, ma con ensemble ridotte, e soprattutto monologhi: se ne prevedono almeno otto che uniscono importanti testi del Novecento e attori famosi.

Una formula del tutto diversa, certo, ma salva il teatro, mantiene il rapporto con il pubblico e apre anche a forme di sperimentazioni. Rimane un interrogativo: gli attori indosseranno la mascherina?

Nonostante le polemiche, c’è chi non la vede come un problema. Come Andrée Ruth Shammah, per esempio, fondatrice e anima del Teatro Parenti di Milano. «All’inizio sembravano sbagliate, ma se il pubblico le ha, mi sembrava una cosa bella che le avessero anche gli attori. Del resto è un richiamo anche al teatro greco, quando gli attori indossavano maschere».

In generale, deve cambiare la forma degli spettacoli, «e nessuno può dire come sarà, o come si deve fare. Io posso solo spiegare come faremo noi».

Anche qui i progetti non mancano. Si comincia «con una formula nuova», il 18 giugno, nel parco all’esterno «con gruppi di 20 persone sistemati in otto spazi diversi», per un totale di 160 spettatori. Per ogni gruppo, «un attore», che all’imbrunire racconterà storie, ci sarà musica e anche danza. Tutto molto intimo.

Le stesse mascherine saranno adattate, colorate, ripensate: «Dobbiamo pensare che siamo cow-boy della scena», dice. L’obiettivo, coniugando parco e piscina, è creare una arena estiva.

Ma non tutti hanno la fortuna di avere un parco all’aperto. Restano le solite incognite: si dovrà fare spettacoli ad hoc? Dovranno essere modificati? «Anche per questo i teatri non partono con le stagioni degli abbonamenti. Ho proposto una tessera di abbonamento “al buio”, cinque spettacoli per 50 euro senza però sapere cosa sarà messo in scena». Potrebbe essere intrigante. «Non so cosa potremmo fare, mi piacerebbe far leggere “La Sirena” di Tomasi di Lampedusa», e di sicuro «“Locke” di Filippo Dini», adattamento teatrale del successo di Steven Knight”.

Per ora ci si affida ai camion (sì, proprio così), un’idea che fa rivivere il teatro itinerante. Sono mezzi di trasporto e palcoscenico allo stesso tempo, destinate ai comuni piccoli colpiti dalla crisi, come Lodi. Il camion arriva, sistema le sedie (sempre a distanza) «e farà concerti e spettacoli comici, con giovani e musica». L’obiettivo è portare un po’ di allegria, cultura, conoscenza. Teatro, insomma.

Ma la verità è che tutto è ancora in sospeso, la situazione è difficile – anche il sovrintendente della Scala Dominique Meyer lo riconosce, in un webinar con il direttore della Treccani Massimo Bray.

La volontà è di riaprire «alla grande». A settembre, se sarà possibile, con il Requiem di Verdi in onore dei morti della pandemia, ma in Duomo. E poi, alla Scala, con la Nona sinfonia di Beethoven, come segno di speranza. Bisogna pensare «a come portare avanti la nostra arte e far provare il piacere di stare insieme, di avere una reazione, un’emozione di fronte allo spettacolo».

Questo vale per i concerti, per il teatro, per lo spettacolo in generale. Che è consapevole che i problemi potrebbero non essere finiti.

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